Mi trovo in sala d’attesa,
la terra di mezzo tra il prima ed il dopo. La signorina all’entrata del poliambulatorio
mi ha detto che il medico ancora non c’è, però io posso sedermi qui, su una delle
sedie di plastica e aspettare. Così ho fatto, e mi sono ritrovato in una
completa solitudine, dentro una stanzetta bianca, direi disadorna, con due file
di seggiole che si fronteggiano appoggiate alle pareti più lunghe, collegate tra
loro in maniera stabile e perciò inamovibili. Immagino tutta la gente che passa
da qua, in orari magari leggermente diversi, e normalmente staziona tra queste
mura nell’attesa di una visita importante, di un parere prezioso, di una parola
definitiva da parte della persona di scienza che dal suo studio medico a fianco
certe volte toglie dei dubbi, e in altri casi può anche inserirli, sempre con un’opinione
assolutamente obiettiva, sia sul paziente che sulla materia.
Persino la finestra
ha dei vetri opachi, che non permettono di vedere di fuori, perciò ogni
individuo che si trova in questo luogo è costretto a pensare solo e soltanto a
quanto potrà succedergli o meno, appena verrà ammesso al cospetto del dottore
di turno. Poi però entra una donna, improvvisamente, saluta sfuggente ed osserva
dei fogli che tiene in mezzo alle mani, pare distratta, poi annusa in giro,
come a cercare la pista più giusta; torna indietro e la signorina all’entrata, dal
suo bugigattolo protetto dal vetro, le dice con voce un po’ alta e sbuffando, che
l’ambulatorio che lei sta cercando resta semplicemente dalla parte opposta del
corridoio, dove si trova comunque un’altra sala d’attesa, probabilmente
identica a questa, penso io.
Di nuovo da solo, rifletto
che dovrò sicuramente attendere molto, anche se oramai mi sento nervoso: in
fondo questo è proprio il posto giusto per prepararsi ad una condanna, oppure ad
una parziale assoluzione, visto che già perdere un pomeriggio così, è qualcosa
che in genere costa. Arriva un medico lungo il corridoio con il suo camice
bianco ancora aperto, ma non è il mio, anche se io lo seguo attentamente con il
mio sguardo, visto che non ho altro da fare: sta parlando al telefono, ma da
vero professionista indossa l’auricolare e mette là ogni tanto solamente
qualche vocale a voce bassissima, in maniera che intorno si comprenda il nulla assoluto
della sua legittima conversazione. Poi sparisce dietro una porta e tutto torna
tranquillo.
Vorrei andare a
chiedere, alla signorina che staziona dietro al suo sportello all’entrata e ad
occhi bassi verifica qualcosa sopra uno schermo, se dovrò attendere molto, ma
non vorrei in questa maniera mettermi subito in cattiva luce, perciò aspetto
paziente che tutto si compia con i tempi consueti. Ma è a questo punto che
accade qualcosa: arriva una dottoressa, e capisco subito da come guarda da
questa parte che è quella che io sto aspettando, però non è sola, ma circondata
da quattro o cinque persone che le parlano in affanno quasi contemporaneamente,
e tutte insieme entrano nella sala d’attesa dove io mi sono rifugiato in quest’angolo.
Immediatamente lei sparisce dentro al suo studio aprendo la porta e richiudendola
di scatto alle sue spalle, non senza aver immesso assieme a lei anche un paio
di persone che l’hanno accompagnata fin qui.
Qualcosa pare
sfuggirmi di mano, lascio trascorrere un paio di minuti e poi penso di alzarmi
in piedi per bussare alla porta e chiedere spiegazioni, ma in quell’esatto
momento arriva la signorina che stava all’entrata, e dice con tono
professionale che c’è una lista di attesa con prenotazioni già prese per via
telefonica; appende immediatamente la lista accanto alla porta in una cornice
che non mi aveva proprio dato nell’occhio, e vedo subito che il mio nome è
scritto per ultimo. Mi alzo, rido forte, come uno scemo, non sapendo cos’altro
fare; poi me ne vado.
Bruno Magnolfi
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