Mi avete profondamente
stufato, dico a voce alta dalla mia finestra del quarto piano, riferendomi alla
confusione di gente e di traffico lungo la strada di fronte. Probabilmente
nessuno può sentirmi, immagino, il rumore così forte copre qualsiasi altra
cosa, ma in ogni caso io continuo a guardare quelle persone che corrono di qua
e di là e sento dentro di me un intenso ribrezzo per i loro comportamenti, per
quel loro modo di camminare e di parlare sempre apparentemente corretto e
rispettoso di tutto, nonostante la confusione che creano.
Mi pare
impossibile dover sopportare una vista del genere, ma è tale il disgusto che
non riesco a staccarmi da qui, non ce la faccio a disinteressarmi di loro, a chiudere
la finestra e preoccuparmi di altro. Poi mi accorgo che un tizio dal
marciapiede si è girato verso di me, mi guarda, sta fermo con la faccia rivolta
in alto, ma senza dire niente, come osservando qualcosa di curioso per lui, che
probabilmente non ha proprio nient’altro da fare. Forse ha sentito le mie
parole, penso, ma adesso non sono proprio disposto a ripeterle per assicurarmi
che abbia del tutto capito.
Lo guardo, il
tizio ugualmente continua nella sua osservazione, prosegue a non perdermi
d’occhio, come se si aspettasse da me qualche gesto del tutto clamoroso. Mi
innervosisco, vorrei mettermi persino ad urlare, a spiegare a voce gridata che
non è in questa maniera che il mio disprezzo diverrà meno intenso. Poi vedo,
con la coda dell’occhio, qualcosa sul tavolo della mia stanza: un bel vasetto
di fiori pesante, forse di porcellana, o di terracotta, non so. Lo prendo, lo
impugno con forza, lo lancio d’impulso verso quel tizio, misurando in qualche
maniera le forze, ma si va a rompere in mille frammenti in una zona della
strada dove non c’è proprio nessuno.
L’uomo però ha
visto bene la scena, chiama qualcuno là attorno per informarlo, adesso mi
indicano con una mano, forse vorrebbero impedirmi di dire di nuovo quello che
penso, vorrebbero contrastare questo starmene qui a questa finestra, a dire ciò
che mi va. Mi pare impossibile che ci sia qualcuno che non riesce neppure a
comprendere che devono andarsene tutti, filarsene via, lontano dalla mia vista,
con quei loro passetti identici e quel modo falso di sorridersi a vicenda.
Il tizio pare
non perdersi neppure una mossa dei miei comportamenti, gli altri complottano
qualcosa tra loro: a me adesso viene perfino da ridere tanta è la rabbia che mi
fanno quei perditempo schifosi che non hanno altro da fare che starsene tutto
il giorno a transitare sotto a questa finestra. Forse potrei trovare
qualcos’altro da tirare addosso a loro, ma in fondo adesso mi hanno annoiato
del tutto, rientro, chiudo i vetri e tiro le tende.
Che cosa
m’importa se chiederanno di me al vicinato, se forse saliranno le scale per
suonare questo campanello dell’appartamento, per poi alla fine parlare con
qualcuno della mia famiglia, mio fratello magari, oppure la mia anziana mamma:
non me ne importa un bel niente, quello che dovevo dire l’ho detto e senz’altro
continuerò a ripeterlo, perché è una verità sacrosanta, persino più importante
di quello che può fare o immaginare ciascuno di loro.
Bruno Magnolfi
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