sabato 28 dicembre 2013

Diritto di parola.

            
Mi avete profondamente stufato, dico a voce alta dalla mia finestra del quarto piano, riferendomi alla confusione di gente e di traffico lungo la strada di fronte. Probabilmente nessuno può sentirmi, immagino, il rumore così forte copre qualsiasi altra cosa, ma in ogni caso io continuo a guardare quelle persone che corrono di qua e di là e sento dentro di me un intenso ribrezzo per i loro comportamenti, per quel loro modo di camminare e di parlare sempre apparentemente corretto e rispettoso di tutto, nonostante la confusione che creano.
Mi pare impossibile dover sopportare una vista del genere, ma è tale il disgusto che non riesco a staccarmi da qui, non ce la faccio a disinteressarmi di loro, a chiudere la finestra e preoccuparmi di altro. Poi mi accorgo che un tizio dal marciapiede si è girato verso di me, mi guarda, sta fermo con la faccia rivolta in alto, ma senza dire niente, come osservando qualcosa di curioso per lui, che probabilmente non ha proprio nient’altro da fare. Forse ha sentito le mie parole, penso, ma adesso non sono proprio disposto a ripeterle per assicurarmi che abbia del tutto capito.
Lo guardo, il tizio ugualmente continua nella sua osservazione, prosegue a non perdermi d’occhio, come se si aspettasse da me qualche gesto del tutto clamoroso. Mi innervosisco, vorrei mettermi persino ad urlare, a spiegare a voce gridata che non è in questa maniera che il mio disprezzo diverrà meno intenso. Poi vedo, con la coda dell’occhio, qualcosa sul tavolo della mia stanza: un bel vasetto di fiori pesante, forse di porcellana, o di terracotta, non so. Lo prendo, lo impugno con forza, lo lancio d’impulso verso quel tizio, misurando in qualche maniera le forze, ma si va a rompere in mille frammenti in una zona della strada dove non c’è proprio nessuno.
L’uomo però ha visto bene la scena, chiama qualcuno là attorno per informarlo, adesso mi indicano con una mano, forse vorrebbero impedirmi di dire di nuovo quello che penso, vorrebbero contrastare questo starmene qui a questa finestra, a dire ciò che mi va. Mi pare impossibile che ci sia qualcuno che non riesce neppure a comprendere che devono andarsene tutti, filarsene via, lontano dalla mia vista, con quei loro passetti identici e quel modo falso di sorridersi a vicenda.  
Il tizio pare non perdersi neppure una mossa dei miei comportamenti, gli altri complottano qualcosa tra loro: a me adesso viene perfino da ridere tanta è la rabbia che mi fanno quei perditempo schifosi che non hanno altro da fare che starsene tutto il giorno a transitare sotto a questa finestra. Forse potrei trovare qualcos’altro da tirare addosso a loro, ma in fondo adesso mi hanno annoiato del tutto, rientro, chiudo i vetri e tiro le tende.
Che cosa m’importa se chiederanno di me al vicinato, se forse saliranno le scale per suonare questo campanello dell’appartamento, per poi alla fine parlare con qualcuno della mia famiglia, mio fratello magari, oppure la mia anziana mamma: non me ne importa un bel niente, quello che dovevo dire l’ho detto e senz’altro continuerò a ripeterlo, perché è una verità sacrosanta, persino più importante di quello che può fare o immaginare ciascuno di loro.


Bruno Magnolfi

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