Si rifiutavano
quasi ogni volta i gesti eclatanti di distensione, non ce n’era affatto
bisogno, almeno non quando eravamo impegnati nella ricerca di una linea
obiettiva da tenere tra noi. Non eravamo d’accordo su niente, era chiaro,
ognuno doveva per forza tracciare una linea distintiva per tenere separate le
aree di pensiero utilizzate. Però si sfociava con facilità in quella leggerezza
insospettabile e tenuta nascosta, e ci si scopriva bambini con grande rapidità,
pronti a piangere di niente, e spesso a ridere praticamente per nulla.
Oltre c’era
sempre un mondo migliore, però immeritato, tanto che nessuno sognava mai di
fare anche soltanto un passo verso quel fine. Restava sempre l’urgenza, la
voglia infinita di protendersi verso quel lido, anche se quello cadeva
d’importanza al solo cercare di avvicinarlo. Ci si nascondeva da tutto, anche
io come gli altri, e si evitavano costantemente i luoghi comuni. Mi ritrovavo
quasi sempre in una piccola piazza con altri cinque o sei dei nostri, che
neppure conoscevo troppo bene, ma ci piazzavamo seduti sui gradini di pietra, e
poi si stava lì esattamente come si sarebbe potuti rimanere in qualsiasi altro
posto.
Alla fine si restava
regolarmente in due, e quasi sempre ci si teneva per mano per quel senso di
sintesi che si provava, ed a quel punto si andava generalmente da qualche altra
parte, a godersi la città quasi deserta in quegli orari desueti. E ci si
baciava qualche volta, io e lei, in qualsiasi luogo potevamo trovarci, ma la
cosa più importante di tutte era il lungo e profondo abbraccio che riuscivamo a
scambiarci ogni volta che si provava di nuovo quel profondo brivido, quel senso
inspiegabile che ogni poco ci prendeva, lo stesso che ci faceva sentire diversi
da tutti, e del tutto irraggiungibili dagli altri. Era dolore puro lasciarci,
comprendere che forse non ci sarebbe più stato per noi un giorno così, o almeno
una serata del genere, o una notte come quella che stavamo vivendo e che
dovevamo purtroppo interrompere.
Le percezioni
si affinavano poi ulteriormente una volta da soli: tutto diveniva
immediatamente un grande ricettacolo di qualsiasi piccolissimo elemento di cui
trattenere l’essenza profonda, di cui parlare, lo stesso giorno seguente, la
sera stessa, appena possibile, appena risvegliati dal sonno irrinunciabile,
purtroppo sempre presente. Ma nel riposo lavoravamo ugualmente, la radio accesa
in un angolo, una piccola lampadina soffusa da qualche parte, coperta da una
stoffa a nostro modo di vedere assolutamente preziosa. E poi una mano fuori
dalle coperte a cercare qualcosa, sempre qualcosa, quella stessa medesima cosa
che in genere stava raggomitolata anche nella nostra mente, ma secondo la quale
bastava un gesto, quel gesto, quel piccolo tocco, per ritrovarsela lì, accanto
a noi.
Poi c’erano i
lunghi silenzi dopo le tante parole scambiate, e la convinzione profonda che
sarebbe stato impossibile dirsi davvero tutto quello che avremmo voluto; così
guardavamo insieme e contemporaneamente verso qualche parte, impressionati da
una realtà che forse nessun altro vedeva, e ci lasciavamo andare rapiti da
quella magia che soltanto noi riuscivamo a comprendere. Il resto era distante,
di nessun interesse, forse addirittura incapace di far parte davvero del nostro
mondo: per questo sapevamo di essere estranei, anche se in fondo avevamo
coscienza che tutto quanto non sarebbe mai potuto durare per sempre.
Bruno Magnolfi
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