Non me ne
importa niente di tutta questa gente intorno. Sto seduto per conto mio sulla
carrozza del tram, e provo un grande fastidio quando le persone salgono,
scendono, si muovono in questo spazio angusto, strusciandosi di qua e di là
senza riguardi. Alla mia fermata infine scendo, e mi guardo attorno nel buio
rischiarato dai lampioni stradali, in questa serata così insignificante.
Sono stato
all’ospizio, oggi pomeriggio, a far visita ad una mia vecchia zia, l’unica
parente che mi sia rimasta; era seduta, appoggiata dagli inservienti su una
poltroncina, e mi ha guardato, forse senza neppure vedermi, perché mi sono
accorto bene come non mi abbia neppure riconosciuto. Così ho detto qualcosa a
voce alta, ho aspirato leggermente quell’odore di vecchio e di malato, ho usato
con lei alcune sciocche frasi di circostanza, poi sono venuto via.
Certo, non
sono uno che sia riuscito mai a stare al passo con i tempi, non sono stato
neppure capace di adeguare i miei argomenti a quelli di tutti, e cosi non ho
mai frequentato dei caffè, o gli altri luoghi di conversazione; me ne sono
rimasto sempre per conto mio e basta. Forse è stato un errore, sicuramente, ma
non posso certo iniziare adesso che sono in là con gli anni e vivo ormai
talmente solo da risolvermi a parlare col gatto e qualche volta con lo
specchio.
A cosa serve
tutto questo, penso qualche volta. Le cose vanno avanti per conto proprio, le
persone quando cammino per la strada certe volte mi guardano come se fossi uno
diverso da qualsiasi altro. Ma io lascio correre, niente di questo mi riguarda,
i giudizi di tutti neanche mi sfiorano, sono soltanto un tizio disinteressato
di parecchie cose, vorrei dire, uno che si lascia accompagnare semplicemente dalle sue
abitudini.
Perché mai
dovrei cambiare, rifletto in seguito, per quale motivo mettermi a parlare con
tutta questa gente che non sa neppure cosa dire, a cui le parole non costano un
bel niente, escono loro di bocca come vapore, come respiro d'affanno dopo una
lunga corsa. Resto da solo, preferisco così che confondermi con chi non sa neppure
misurare dei pensieri, e quindi neanche quei sottili dubbi che si insinuano a
volte nella mente e non se ne vanno più, per nessun motivo.
Possiedo poco,
rifletto, forse niente; proprio perché le mie povere cose le ho tenute sempre
per me, senza porgerle in giro assieme magari a qualche bel sorriso,
accompagnando tutto quanto con quelle stesse parole così gradite a molti. Ma
non ha importanza alcuna, mi dico; va bene in questo modo, non voglio
compromessi: rientro in casa, sto col gatto, mi occupo dei miei pensieri e di
nient’altro. Mi siedo sopra la poltrona, lascio che il gatto venga sopra le mie
ginocchia, poi gli dico che è tutto a posto, il suo cibo sta di là, tra poco ne
metterò una porzione dentro la sua ciotola.
Mi alzo, elenco
con calma i miei gesti casalinghi, e so per certo che non ci sarà bisogno
d'altro, almeno per stasera. Cosa m’importa di queste feste così finte, di
questi auguri che rimarranno perlopiù lettera morta, di tutta la patina che non
porterà mai niente di diverso. Mi siedo, suonano alla porta: è il mio vicino,
dice che stasera sono invitato a cena a casa sua, insieme a tutta quanta la sua
famiglia. Non può pensarmi tutto solo, spiega, e poi vuole parlarmi dei gatti
ed anche di altre cose. Lo guardo, non mi risolvo a rispondere niente, ma la
mia volontà sento che vacilla. Accetto, dico alla fine sottovoce: in fondo c’è
ancora tempo per la solitudine.
Bruno Magnolfi