“Non mi sento bene”,
dico a tutti i colleghi che in questo momento sembrano contenti di essere quasi
arrivati alla fine dell’orario di lavoro. In quattro si voltano verso di me, mi
scrutano, mi chiedono qualcosa, ed io intanto mi accascio leggermente sulla mia
scrivania. Qualcuno mi solleva delicatamente la testa, gli altri si accostano e
fanno delle domande, cercano probabilmente di capire se io sto solo scherzando
o se davvero sono preda di un improvviso malessere. Mi rimetto a sedere in
maniera composta: “adesso passa”, dico senza convinzione; “però vorrei andare
in bagno a bagnarmi la faccia”. Mi aiutano, mi sorreggono, mi aprono la porta,
poi mi lasciano solo davanti allo specchio del lavandino. Osservo riflessa di
fronte a me un'espressione sinceramente assai sofferente, anche se non avverto
particolari dolori in nessuna parte del corpo.
Esco dal bagno, torno
verso la mia scrivania, e i miei colleghi, forse per paura che dica chissà
cosa, non mi pongono neppure delle domande, lasciando casomai che sia io a
spiegarmi, sempre che abbia intenzione di dire loro qualcosa. Invece non dico
niente, mi limito ad aprire un cassetto, guardare che cosa c’è dentro e poi
chiedere un bicchiere d'acqua da bere. Qualcuno va a prenderlo nel corridoio, dove
c’è una macchinetta per queste cose, poi torna, lo appoggia sul piano del
tavolo, un altro mi chiede se forse sia il caso di telefonare a casa mia,
magari per non andarmene via da solo al momento del termine dell'orario della
giornata.
"Provo
un'uggia", dico come a me stesso; "qualcosa che mi lascia senza
alcuna forza, anzi senza volontà, come se non mi fosse più possibile fare
niente". Gli altri mi guardano con sopportazione, ripongono con metodo
tutte le loro cose, poi, con i cartellini elettronici già pronti in mano,
iniziano ad uscire. Per ultima una collega mi chiede se mi vada di scendere con
lei in ascensore, magari per sorreggermi e per vedere se ce la faccio a tenermi
in piedi e ad uscire da là. La ringrazio, impugno la mia borsa, mi lascio
tenere sottobraccio fino in corridoio, poi mi fermo, le dico che non ha importanza,
“adesso sto meglio; tu vai pure, io ti seguo tra cinque minuti”.
Così torno a sedermi da
solo mentre il palazzo di uffici si svuota. Vado con calma vicino ad una
finestra ed osservo tutti quanti che si salutano mentre sono ormai sulla strada
e si avviano verso le loro macchine o i mezzi pubblici. Potrei rovesciarmi sul
pavimento e restare qui penso, almeno fino a quando il personale delle pulizie
non arriva più tardi anche in questa stanza. Oppure potrei infilarmi in un
armadio per i documenti, uno di quelli più grandi, e restare là dentro tutto il
tempo che serve, almeno fino a quando il personale in divisa potrebbe venire a
controllare il palazzo.
Non ho più intenzione
di essere ancora uno come tutti, trascorrere la giornata chino su queste
scrivanie davanti ad un terminale elettronico, e poi tornarmene a casa
compiendo lo stesso tragitto di sempre e trascorrere la serata come tutte le
altre serate, esattamente uguali a quelle che trascorrono sicuramente tutti i
miei colleghi. Ci deve essere un corto circuito da azionare penso, qualcosa che
se viene messo in moto tutto comincia ad andare in un’altra maniera, una
maniera che nessuno di noi avrebbe mai immaginato fino ad un attimo prima. Ho
bisogno di uscire dal ruolo che svolgo, dalle azioni che compio, dalle cose di
sempre, da tutto ciò che mi fa essere una persona qualsiasi, senza distinzioni
di sorta. Devo pensarci molto seriamente, devo trovare una via d’uscita da questo
tremendo percorso che a volte appare del tutto inarrestabile. Infine esco anch’io
da questo palazzo di uffici, proprio come già hanno fatto gli altri.
Bruno Magnolfi
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