"Si sta
consumando lentamente", dico con una voce appena sussurrata a questa
nostra vicina di casa che oggi è passata a vedere come possono andare le cose
dopo il lungo periodo di ospedalizzazione di mia moglie. "D'improvviso
tutto diventa una sciocchezza, al confronto”, le dico; “ed in certi momenti sembrano
venire a mancare perfino le forze per continuare ad andare ancora avanti". Non voglio commuovermi,
penso trattenendomi, anche se ne avrei una gran voglia. D’altra parte appare
evidente come tutto quello che era l’andamento normale di una casa, di una
famiglia, di tutte le abitudini consumate nel giro di tanti anni, degli stessi
comportamenti maturati tra noi due, ed anche quei semplici pensieri messi a
punto giorno dopo giorno come una vera strategia di esistenza, adesso siano
completamente infranti, finiti, spazzati via da qualcosa che è come un incubo a
cui però non resta che adattarsi. La vicina mi stringe la mano senza parlare, e
poi se ne va, mesta, triste, come già si immaginava di dover essere, fin dal
momento in cui aveva suonato il campanello alla porta.
Resto da solo a
guardare gli oggetti di sempre, nel silenzio dell’appartamento ammalato,
foderato di un sottile dolore che non c’era fino a qualche settimana più addietro,
e che adesso è diventato l’elemento più forte, più invadente, prevaricatore di
ogni altro aspetto. Mi guardo attorno, ed anche se niente è stato cambiato o
spostato, tutto comunque ha ormai assunto una colorazione diversa e uniforme,
come a mostrare una patina di irrealtà purtroppo vera. Preparo del caffè,
controllo le scatole dei medicinali in primo piano, guardo l’orologio da muro
inflessibile, mi dedico a togliere della polvere immaginaria da sopra il piano
della credenza in cucina, tanto per occupare le mani e la testa in una
sciocchezza qualsiasi, qualcosa che mi riporti a dei gesti consunti, usuali, e verso
quella normalità per cui adesso pagherei
qualsiasi cifra.
La sospensione
che avverto è pressoché insopportabile. Il mio respiro, le mie dita, il
passato che torna prepotente a dirmi com'erano le giornate soltanto l'anno
scorso, o quello prima, o durante un tempo che nei pensieri diventa
lungo e indefinito, per
certi versi: tutto adesso mi arriva addosso insopportabilmente, proprio come un corpo estraneo e nemico in mezzo ad un
organismo ancora vivo. Questa forse la sensazione più forte, quella di
affrontare i prossimi giorni e le prossime ore con la coscienza che tutto sarà caratterizzato
da attimi differenti, e che si dovrà modificare leggermente tutto il percorso,
a seconda dei passi successivi che il male richiede. Infine torno in camera da
letto, e lei è lì: apre gli occhi, mi guarda, sa cosa penso, conosce benissimo
cosa io possa avere in mente durante questi momenti. Io la guardo, sorrido, dico
qualche sciocchezza, anche se è soltanto una maschera di cortesia, e lei
distoglie lo sguardo quasi cercando di nascondere il pallore oramai assunto
dalla sua faccia.
“Mi dispiace”,
dice poi con grande presenza di sé, forse vergognandosi per la situazione che è
andata così rapidamente franando. Le prendo una mano, vorrei dirle chissà cosa,
ma non ha alcuna importanza: sono qui, penso; sarò con te quando le cose
precipiteranno.
Bruno Magnolfi
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