"Non mi
sento bene", dice lui con la sua voce di circostanza, osservando qualcosa
nel vuoto mentre sta seduto di fronte alla vetrata del soggiorno che rimanda i
bagliori rossastri del sole al tramonto. Lei non risponde, rimane appoggiata
con la schiena sulla sua comoda poltrona, a cercare con gli occhi fissi in
avanti le aree di variazione quasi impercettibili dei colori nel cielo davanti
a sé. “Non saprei descrivere i sintomi", prosegue lui, "ma è come se
qualcosa di estraneo si fosse inserito nella mia testa, e mi confondesse
continuamente i pensieri". Lei sembra non dare peso a queste parole,
impassibile prosegue ad osservare l’incupirsi progressivo ed inarrestabile di
ogni sfumatura. “Dovresti prendere un calmante”, stabilisce alla fine; “le
prove della Messa da Requiem ti hanno svuotato, ti è rimasto soltanto il solito
nervosismo prima di ogni debutto”.
“Forse hai
ragione”, fa lui; “in ogni caso sotto il profilo del concerto di domani mi
sento abbastanza tranquillo. Le cose stanno andando piuttosto bene, e non prevedo sorprese, anche se niente gode di completa
certezza". Poi si alza dalla sua poltrona, fa qualche leggero cenno incomprensibile con il capo, e poi si volta verso il tavolo, dove si serve qualcosa da bere. "Non è
facile tenere sempre un profilo attento e
rigoroso", dice dopo un minuscolo sorso. "Spesso sembra che
tutti siano pronti a puntarti un dito contro, nel caso in cui ti lasci andare
appena di un niente". Lei improvvisamente lo guarda fisso, come cercando
di vedere qualcosa sopra al suo viso che le è probabilmente sfuggito fino a
questo momento.
Squilla il telefono, i soliti auguri
di colleghi, di amici e musicisti, poi lui torna a sedersi spegnendo
l’apparecchio, forse cercando di nuovo quel punto impreciso che fissava fino ad
un attimo fa. “Certe volte immagino delle cose che neppure esistono”, le dice
come facendo una confessione dolorosa. “Poi mi vengono davanti delle masse
sonore scomposte, come se tutto si muovesse ancora nell’attesa di essere
riorganizzato, sistemato a dovere, controllato in maniera precisa e definita”. Per
lui la musica è solo pianificazione, severità, mestiere insomma, niente che
sfugga alla mano di tutto ciò che viene ogni volta prestabilito. Lei conosce
benissimo il suo rigore e la sua disciplina nel portare avanti le cose, come comprende
benissimo la sua pausa riflessiva del giorno prima, e così conosce i dubbi inconfessati
che sembrano attanagliarlo durante ogni vigilia, anche se qualcosa stavolta
sembra diverso.
“Puoi farti sostituire”, dice lei all’improvviso
per dargli una scossa a cui lui certamente non può rimanere indifferente.
Invece non ottiene alcun risultato, come fosse esattamente quanto lui sta
proseguendo a pensare. Torna a guardarlo girando di nuovo la testa dalla sua
poltrona, e vede che piange, che non riesce proprio ad affrontare qualcosa che
lo tormenta. “Devo fare il mio dovere”, dice lui sottovoce, come se la sua
fosse praticamente una missione, qualcosa di paragonabile alla difesa della
propria patria. “Non mi sento sorretto”, dice di botto; “e se fino ad oggi non
ho mai provato questa necessità, adesso è diventato qualcosa di estremamente
importante”. Lei si alza, gli va vicino, gli accarezza la faccia: è solo un bambino,
pensa; soltanto un bambino con le necessità di tutti i bambini, di sentirsi
accudito, protetto, confortato.
Bruno Magnolfi
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