Sempre le medesime cose. Inutile insistere. Si può
cercare di sfuggire almeno per un po’ alle abitudini, fingere di sentirsi
magari su un altro piano, immaginarsi persino superiori, o di essere
assolutamente capaci di un’analisi maggiormente accurata, o anche più veritiera,
e che mostri i limiti di ciò che ci sta attorno. Ma alla fine è la monotonia delle
giornate che riesce a piegarci, un succedersi continuo di elementi costanti e
già ampiamente previsti, senza alcuna possibilità di sottrarsi per davvero a
questa logica. Un ritmo costante delle ore di ogni giorno, un continuo ripetere
di gesti, espressioni, pensieri, fino alla nausea, semmai entrasse anch’essa
nel gioco. E poi però anche la sicurezza delle solite cose, la tranquillità dei
pensieri ben noti, la capacità della coerenza: tutto regolato da un unico
grande ragionamento: il filo continuo che lega le cose, i fatti, la realtà, ciò
che nel bene e nel male ci riguarda più o meno tutti.
Sbatto la porta mentre esco di casa, non perché mi senta
nervoso, quanto per essere sicuro che sia chiusa per bene una volta uscito da
lì. C’è un pezzo di strada di fronte a me da affrontare, quindi devo
semplicemente sostare alla fermata del bus, osservare due o tre volte
l’orologio, guardarmi un po’ in giro ed attendere, che sia un solo minuto
oppure dieci. All’arrivo del mezzo pubblico posizionarmi in modo da usare la mano
di destra per aiutarmi a salire, cosicché la mano sinistra sia libera il prima
possibile per obliterare il biglietto, e cercare immediatamente con il corpo
uno spazio abbastanza libero in mezzo alla calca, per guadagnare una nicchia in
cui sentirmi protetto, con le spalle alla vettura già in movimento, osservando
dal vetro vicino un panorama cittadino privo di dettagli resi peraltro
illeggibili dalle pubblicità.
Potrei
scendere dal mezzo pubblico ad una fermata qualsiasi, perdermi a piedi lungo un
groviglio di strade che conosco anche poco, allontanarmi da tutto ed attendere
che qualcuno venga forse a cercarmi, come se avessi perso completamente la mia
memoria, non riconoscessi più la mia città e non sapessi come fare per tornarmene
indietro. Potrei trovare forse un rifugio, una tana qualsiasi dove nascondermi
da questo tempo martellante, da queste cose da fare, gli impegni da affrontare,
le abitudini alle quali dar seguito. Potrei rannicchiarmi in un angolo ed osservare
gli altri che passano davanti ad una semplice feritoia praticata in una spessa
parete, difendermi dagli attacchi di coloro che forse odiano tutto, quelli
indifferenti alle sofferenze di tutti. Potrei muovere a mia volta degli
attacchi mirati, compiere delle incursioni precise per cercare di fiaccare le
fila di ogni avversario, e poi rendere inoffensivi i nemici tramite degli
astuti tranelli, iniziando subito dopo col prepararmi per una valida controffensiva,
fingendo di avere diverse unità ai miei comandi, in modo da incutere paura già
solo mostrando le mie potenzialità.
Però
le fermate scorrono una dietro quell’altra, e ad un tratto riconosco la mia,
così scendo, devo scendere, proprio come ogni giorno. Il mio posto di lavoro
rimane come ogni volta davanti a me, identico, e nella stessa maniera di sempre
tra un attimo striscerò il mio cartellino dentro la macchina, poi entrerò nell’edificio,
saluterò i miei colleghi, e sarò pronto per intraprendere un’altra giornata
lavorativa. Però mi fermo, rifletto, mi passa un fulmine improvviso dentro la
testa, poi mi giro su un fianco e con passo svelto mi allontano, senza neppure guardare
chi possa aver dietro. Faranno a meno di me, almeno per oggi.
Bruno
Magnolfi