Mio padre aveva voluto uscire con me
quel mattino, senza stare a spiegarmi per quale motivo o dove si andasse. Aveva
preso una delle due macchine piccole dal nostro garage, una che lui definiva
per la città, ma solo perché la sua, quella grande, doveva passare un
controllo. A lui piaceva guidare, anche se normalmente si lasciava portare in
giro dal suo autista rimanendo seduto sul sedile di dietro e limitandosi a
telefonare e a prendere appunti. Però quasi ogni giorno, invece di farsi venire
a prendere, ci teneva a guidare la sua auto almeno da casa fino alla fabbrica,
e viceversa a fine giornata. Dal momento che varcava il cancello della sua fabbrica
la macchina era in mano all’autista, ma fino a lì voleva sentirsi uno come gli
altri, senza alcun privilegio. Era sabato, e dapprima facemmo un giro lungo i
viali, la radio in sottofondo per i notiziari; poi mio padre parcheggiò al
bordo di un grande giardino comunale. La passeggiata sembrava calma e
tranquilla, quasi innaturale in confronto alla fretta costante che lui aveva
sempre. Rimaneva in silenzio, anche se io mi aspettavo da un momento all’altro
che iniziasse una delle sue solite prediche. A me dispiaceva deluderlo nelle
cose che normalmente facevo, ma lo trovavo così diverso da me che il pensare le
mie cose in modo alternativo alle sue mi veniva spontaneo. Argomento difficile
da spiegare, base corrente di ogni discussione in famiglia, così quando mi
chiese se fossi contento dei miei risultati scolastici e dei miei rapporti
sociali con i compagni, e con gli amici e i parenti, dissi subito di no, quasi
di getto. Immaginai che mi avesse osservato qualche volta, che si fosse accorto
di un mio disagio, e mi sentii geloso dei miei comportamenti. Così rettificai, per
paura di dover entrare in qualche dettaglio, spiegando meglio che mi riferivo
solo a piccole cose e che in fondo tutto andava bene e che non avevo problemi.
Mio padre continuava a camminare in silenzio con lo sguardo in avanti. Lungo il
vialetto tra gli alberi la ghiaia rumoreggiava in modo allegro e simpatico
sotto alle nostre scarpe, e i nostri passi apparivano cadenzati in modo divertente,
quasi ridicolo. “Tuo fratello dice che quando c’è lui, tu sei a disagio, ti
innervosisci, dici scempiaggini”. Rimanevo in silenzio. Tra di me cercavo le
parole per affrontare quell’argomento che sinceramente non mi aspettavo, ma in
fondo a me avevo solo voglia di fare una bella corsa tra gli alberi e perdermi
fino a non avere più fiato. Certo; adesso era chiaro tutto quel comportamento
insolito della passeggiata ed il resto. Il vero grande elemento centrale della
nostra famiglia, il centro di ogni discussione e ogni pensiero: mio fratello
minore, il preferito di mio padre. Sapevo già in partenza che avrei dovuto
promettere qualcosa, ed ero pronto a farlo, bastava terminare in fretta quella
cosa ridicola. Così dissi che sarei stato più attento con mio fratello, lo
avrei considerato di più, e cose del genere. Suonò fortunatamente il telefono a
mio padre, e lui si allontanò di qualche passo per parlare di affari e di
lavoro con tutta la calma di cui aveva bisogno. A me scappava da ridere, forse
per la tensione, e avrei voluto tornarmene a casa il più velocemente possibile.
Ma qualcosa aveva irritato mio padre, lo intuii dal modo con cui volle
riaffrontare con me l’argomento rimasto in sospeso. Non alzò affatto la voce,
ma a me parve che urlasse, e scoprii di tremare leggermente per l’agitazione.
Tutto culminò sul fatto che avrei dovuto funzionare da guida per mio fratello,
non fargli nascere strane idee su di me, e quei cinque anni che ci separavano
avrebbero dovuto darmi una spinta ad essere meno infantile, più accorto,
maturo, in una parola un vero fratello maggiore. Dissi sottovoce di sì tutte le
volte che mi era richiesto, poi, a passo più veloce di quando eravamo arrivati
al giardino, ritornammo verso la macchina. Arrivarono altre telefonate, e per
tutto il tempo fino ad arrivare alla villa, mio padre si occupò delle sue cose.
Il resto della giornata scorse come in un film visto più volte, e non accadde
niente, se non nella mia testa. In fondo al giardino della nostra casa c’era un
muro basso; mi sarei alzato dal letto a notte fonda, mi sarei vestito in
silenzio ed avrei sceso le scale fino al piano terra; avrei raggiunto il frigorifero
in cucina ed avrei riempito il mio zainetto con qualcosa da mangiare, poi avrei
aperto lentamente il finestrone del giardino e sarei uscito fuori. Il muro non
era un problema, bastava arrampicarsi fino in cima e lasciarsi andare di là,
senza problemi. Poi sarei andato alla stazione ferroviaria e con i soldi che
avevo risparmiato mi sarei comprato un biglietto per salire sul primo treno. Più
tardi fu l’ora di andare a letto esattamente come ogni sera, quasi alla
medesima ora, ma dentro di me sentivo un ribollire di sensazioni. Finsi di
avere la concentrazione per leggere qualche pagina di un libro di avventure che
avevo iniziato qualche giorno prima, poi lo riposi sulla mensola accanto al mio
letto e spensi la luce come per dormire. Dalla finestra chiusa filtrava una
debole luce che diveniva più forte mentre i miei occhi si abituavano al buio
della mia camera, e mi girai nel letto parecchie volte cercando posizioni più comode.
Poi tutto sembrò stabilizzarsi, e il tepore delle lenzuola parve perfettamente
in simbiosi con il mio corpo. Ad occhi aperti intravedevo la forma di tutta la stanza,
e ciò che non riuscivo a vedere lo ricostruivo mentalmente con facilità.
Immaginai il buio e il freddo di fuori e questo starmene sdraiato nel silenzio
e nell’immobilità mi parve il massimo del confortevole. Non mi accorsi quando
mi addormentai, ma sicuramente avvenne in modo così dolce e così naturale che
il resto mi parve lontano, quasi qualcosa di estraneo.
Bruno Magnolfi