Alle
spalle della mia scrivania c'è un armadio metallico, grigio, pieno di faldoni
cartacei sistemati abbastanza in ordine, la cui prosecuzione naturale in ordine
alfabetico si ritrova addossata al muro direttamente sul pavimento, visto che
non c’era più spazio, accatastata alla meglio nell’attesa di nuovi scaffali a
sorreggerne il peso. Ogni tanto, nel lavoro corrente che mi viene consegnato
dagli impiegati che lavorano al pubblico, ci sono dei rimandi che mi impongono purtroppo
di andare a controllare qualcosa tra i dati che trovo in quelle vecchie carte
polverose, cosa questa che faccio sempre piuttosto malvolentieri, qualche volta
indossando precauzionalmente anche dei guanti di gomma, vista la polvere. Non
so cosa mi sia scattato stamani, e perché mai abbia perso completamente il
controllo delle mie azioni, però all’improvviso ho rovesciato a terra una gran
parte di quella documentazione mentre l’armadio era aperto, sfoderando un gesto
repentino, nervoso, inarrestabile.
Naturalmente
sono intervenuti subito i colleghi, che mi hanno fatto sedere, una volta
verificato con un certo spavento il tremolio nelle mani ed il pallore sulla mia
faccia. E’ intervenuto persino il capufficio, attivato da qualcuno del piano, il
quale non ha potuto far altro che constatare le condizioni di momentaneo ma
grave disagio in cui stavo versando, visto che non rispondevo neppure alle
domande che mi venivano rivolte, se non con dei semplici accenni; e così, considerato
che non mostravo altri sintomi, si è deciso immediatamente di chiamare un taxi
e di spedirmi al mio domicilio, a riposo, con il consiglio di consultare al più
presto un dottore, naturalmente uno specialista di malattie del sistema nervoso.
A
me non è parso di sentirmi particolarmente esaurito, anche se è evidente come l’odio
profondo per quei faldoni di documenti, affondi le sue radici in tutti questi
anni, da quando mi ritrovo a doverli maneggiare; in ogni caso il gesto che ho
compiuto quest’oggi, ripensando a tutto quanto ciò che è successo, mi è parso
semplicemente liberatorio: “una scatto d’ira che coltivavo probabilmente da
tempo, che tenevo nascosto persino a me stesso, ma nel quale riconosco alla
perfezione i miei sentimenti. Certo, tutto questo non posso dirlo a nessun
altro che a lei, caro dottore, perché i miei colleghi, e ancor meno i miei
superiori, non potrebbero assolutamente comprendere una giustificazione di
questo tipo. Certi materiali bisogna imparare ad amarli, dicono loro, perché
sono semplicemente la base del nostro lavoro, ed è proprio nell’interno delle
loro pagine che vive il senso profondo di ciò per cui siamo chiamati ad
occuparci”.
Il
medico annuisce, prende appunti, cerca di mettersi nei miei panni per comprendere
meglio la situazione; poi dice che sarebbe salutare per me un periodo durante
il quale cambiare qualche mansione, occuparmi d’altro, magari sedermi in un
ufficio diverso, un luogo che possa togliere dalla mia mente l’ossessione per
quei faldoni. “Non sarà facile”, dico con sguardo basso; “in ogni caso se lei
proprio mi prescrive una cura del genere, sarò costretto ad andare dal mio
capufficio per fargli presente la sua volontà”. Il dottore perciò con poche
parole verga sulla sua carta intestata quanto spiegato, poi mi prescrive
qualche calmante, sottolinea alcune semplici raccomandazioni, poi se ne va.
Sono a posto, penso; adesso non ho bisogno di altro.
Bruno
Magnolfi
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