Si
era usciti in mare con la barca, nonostante tutti quanti al Circolo Velico sul
molo ci avessero sconsigliato in ogni modo di affrontare quel forte vento di
grecale. Nel primo braccio di mare si andava via di gran lasco con la barca in
piano, in assenza di onde, ma percorso il primo miglio le cose si complicavano
con l’arrivo delle prime fortissime raffiche. Si vedeva arrivare come un
ventaglio scuro e minaccioso sulla superficie dell’acqua, e subito sartie e
scotte si tendevano allo spasimo scricchiolando sui bozzelli, negli strozzascotte
e nelle impiombature. La barca gemeva e affilava l’acqua con la rota di prua in
continua vibrazione, tanto la spinta era robusta.
Orzammo
lentamente di un buon trenta gradi, fino a metterci di lasco per tenere la
giusta direzione. La parte della coperta rimasta sottovento spariva a tratti
nella schiuma di mare che correva via veloce dietro di noi, e l’inclinazione
della barca era tale da consigliarci di sventare il più possibile le vele, proprio
per cercare di reggere la posizione ed evitare di straorzare col timone. A
tratti si filava via ad una velocità inaudita, lasciando che gli schizzi freddi
delle onde sopravvento, che intanto avevano iniziato ad infastidirci con un
moto di traverso, ci raggiungessero continuamente nella nostra posizione fuori
bordo, tesa a controbilanciare il più possibile la forza del vento sopra le
vele.
Raggiunto e
superato il promontorio, che adesso appena si vedeva davanti a noi, sperso
laggiù nel sipario grigio appena sopra l’acqua, avremmo virato di bordo per
tenerci il più possibile sottocosta, e da lì avremmo raggiunto in breve il
piccolo molo di Levante, deserto in quella stagione, ma dove agilmente si
poteva attraccare la barca e portarla a terra tramite un’invasatura a ruote munita
di verricello elettrico capace di trainarla. Non pensavo a niente se non a quel
turbinare del vento e della spuma di mare, e a quel fischio incessante prodotto
direttamente dalla cartilagine martoriata delle nostre povere orecchie, quando
il balenottero ci affiancò nel mare nero, creando uno spostamento d’acqua tale
che per un attimo chiglia, deriva, timone, persero completamente il senso del
loro ruolo.
Ci ritrovammo
chissà come con le vele ormai al vento, ma solo per il tempo di un attimo, e
quando le vele si gonfiarono dalla parte opposta in uno scoppio d’aria,
realizzammo che la barca aveva virato di bordo in modo autonomo, senza che noi
potessimo far niente, e che era troppo tardi per qualsiasi manovra correttiva.
Le vele a quel punto sparirono in acqua più velocemente del nostro pensiero, e
noi riuscimmo fortunatamente a reggerci con le mani al bordo della barca
rimasto a galleggiare sull’acqua. Misi i piedi sopra la chiglia quasi d’istinto,
e accanto a me vidi di nuovo il balenottero che pareva incoraggiarci sollevando
in superficie centinaia di litri d’acqua ai suoi fianchi, come per cercare di
intavolare un gioco tra noi, o forse per aiutarci, in qualche modo assurdo.
Per un
miracolo del mare, visto che nella posizione dove ci trovavamo e la scarsa
visibilità in quelle condizioni, nessuno avrebbe notato il nostro naufragio, la
barca si mise spontaneamente con la prua contro il vento, e con uno immenso
sforzo prodotto dalla nostra disperazione che fortunatamente in questi casi certe
volte viene in aiuto, riuscimmo a far forza sulla deriva, e le vele fradice
iniziarono a sollevarsi da quell’acqua fredda per noi tragicamente così inospitale.
Quando, con grande fatica, riuscimmo a risalire dentro al pozzetto della nostra
barca, conservando le vele che sbattevano al vento e giudicando con una
semplice occhiata che l’attrezzatura era ancora sufficientemente in ordine, ci
venne quasi da sorridere per quel pericolo scampato, e fu allora che il
balenottero si fece ancora vedere, come per un saluto finale, spruzzando pochi
metri davanti alla prua tutta l’acqua che riuscì a sollevare, sventolando
lentamente la sua enorme coda scura, e inabissandosi di nuovo dentro al suo
mare.
Bruno
Magnolfi
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