sabato 20 febbraio 2010

Il meccanismo mentale.



Probabilmente è solo in un giorno qualsiasi, proprio quando la tua mente è assorbita da altre cose, e in nessun altro momento, che può scattare quel meccanismo al tuo interno che non pensavi neppure di avere. Ci pensi, di getto, mentre lo scopri, ed hai una certezza: è dentro di te il meccanismo, è scattato, devi solo assecondarne l’effetto. Può essere una cosa da nulla, un’inezia; però sai che devi portarla in avanti, darle un seguito chiaro come chiara è apparsa la novità. Come un paio nuovo di occhiali, con le lenti di un colore obsoleto, che ti permettono di vedere ogni cosa in una tonalità differente. 
Forse non è neppure il colore del mondo la cosa importante; è quella deformazione continua delle linee che ti trovi continuamente di fronte: le strade, i palazzi, i contorni della civiltà di ogni giorno. Niente è annullabile, tutto ti striscia sul corpo come un amalgama di elementi essenziali, fondamenti della realtà; nessuno, sembra, possa farne più a meno. Certo che un meccanismo psicologico, come peraltro qualsiasi meccanismo del mondo, come il mondo stesso, è imperfetto. Però è migliorabile, discutibile, adattabile, sostituibile. Basta avere il tempo per affrontarne i difetti, le parti più deludenti, gli ingranaggi meno scorrevoli. Basta avere il tempo, e con il tempo la calma. Ecco, la calma, questo l’ingrediente sempre più raro che ci permette di afferrare qualche pensiero e di provare a descriverlo. Perché certe volte è proprio la fretta che ci porta via i dubbi, le perplessità. Siamo così voraci nell’affrontare la realtà quotidiana da riuscire ad ingollare tutto senza neanche chiederci cos’era o che sapore poteva mai avere.
Nel dubbio invece si nasconde una maggiore umanità, e dal percorso che si apre dietro ad un punto interrogativo, ecco che si allargano i pensieri, e poi gli orizzonti. Il meccanismo che si è insinuato nella nostra mente è solo un modo nuovo di guardare alcune vecchie cose. Apparentemente non ci sono cambi di scena, però quel piccolo scarto che si crea comincia a lavorare dentro di noi, ci fa cambiare poco a poco senza che neppure ce ne accorgiamo. Una trasformazione dolce avviene senza dolore, anche se i risultati ci sfuggono, non abbiamo coscienza di dove potranno portarci: però non possiamo tiraci indietro adesso, dobbiamo dar corso alle cose, guardarle con positività. In fondo è sufficiente avere uno stimolo, un sostegno, un compito particolare, un segreto magari, per scoprirsi diversi dal solito, sorretti in ciò che facciamo da una carica di entusiasmo aggiuntiva, che ci permette di affrontare gli stessi compiti e le solite giornate in una maniera inedita e insospettata fino a poco prima.
Bene, ora ciò che abbiamo pensato potrebbe apparire solo una accozzaglia strampalata di parole, se non si concretizzasse in qualcosa di effettivo, che sta dietro a quelle, e le dirige, le sistema, ne fa qualcosa di organico ed utile. Ma a cosa mai possono servire delle parole, pur messe in fila, sistemate per bene? Saranno utili agli altri, così distratti, così presi da altri problemi, da altre divagazioni sul tema della quotidianità? O saranno utili a noi, che continuiamo come scemi a cercarne il senso recondito, ad affrontarne la musicalità, l’accostamento azzeccato, compiacendoci dei bei risultati, come perfezionisti. Forse il vero elemento da cercare, di cui dobbiamo coltivare il frutto, è semplicemente l’equilibrio esatto tra tutte queste cose, l’amalgama armonico e completo tra interno ed esterno di noi stessi.
Il meccanismo iniziale è diventato una sciocchezza da niente, ora che l’entusiasmo del primo momento si è contraddittoriamente stemprato con parole e pensieri affluiti alla mente per sostenerlo. Non c’è niente di strano, è il normale confluire di due mondi diversi: ciò che si vuole o che si vorrebbe dalla realtà, e ciò che invece la realtà pretende da noi. Così, con questi pensieri, mi sono fermato all’angolo di una strada, davanti ad un passaggio pedonale. Mi sono inchinato, come per riannodare la stringa di una scarpa. Non mi sono guardato attorno, anche se sapevo che qualcuno mi avrebbe osservato, ed ho cercato dentro di me la determinazione utile per andare avanti con il mio proposito. Ho preso il pennarello e con il minimo di calma necessaria, sulla superficie dura e ruvida del marciapiede ho scritto in stampatello:

UMANA  DISUMANITA’


            Mi è parso subito anche troppo generico il giudizio che davo, però mi sono sentito bene. La scritta sarebbe andata via sotto ai piedi dei passanti in pochi giorni, però era un inizio. Il giorno seguente sono tornato ad osservare la mia scritta, ed era là, ancora evidente, sopra al marciapiede, come una sfida. L’indifferenza appare vittoriosa contro le piccole cose, nei confronti dei piccoli gesti umili, è evidente. Ma voglio essere tenace: continuerò a scrivere le mie cose sopra ai marciapiedi, lo farò in maniera univoca,  in modo che si riconosca la mia mano, che si capisca l’urlo trattenuto, che si comprenda la necessità di dire quelle cose, fino a quando qualcuno infine si affezionerà a quelle parole.


            Bruno Magnolfi

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