Lo
scooter dei due ragazzi procedeva lento a notte fonda lungo una vecchia stretta
strada del quartiere dell’università. In giro non si vedeva nessuno, solo
qualche coppia di giovani turisti che cercava il suo albergo, e qualche
nottambulo attardato nei pochi locali ancora aperti. Il silenzio in tutta
quella zona della città normalmente caotica pareva quasi irreale, e i lampioni
tristi e indolenti. Enrico, che guidava lo scooter, spense il motore ancora
prima di fermarsi, proseguendo con l’inerzia del mezzo lungo un tratto di
marciapiede che costeggiava un muro possente, alto tre o quattro metri,
parzialmente coperto di scritte e di qualche piccolo manifesto strappato. Si
trattava di affiggere là sopra una striscia di carta preparata nelle ultime
sere, di formato enorme, un metro per cinque, con sopra una scritta ben
disegnata inneggiante al gruppo politico che si presentava alle prossime elezioni universitarie per il
rinnovo dei rappresentanti del Consiglio.
Enrico non
faceva neanche parte della rete dei candidati, ma essendo militante
dell’organizzazione a cui si rifaceva quel gruppo, ben volentieri si era
offerto per quel lavoretto. Loro due avevano il pennello, la colla, i manifesti
tenuti con garbo sotto ad un braccio. Decisero a gesti il punto e l’altezza
dove incollare la carta, poi, con esperienza, srotolarono lentamente la
scritta. Fu proprio allora, mentre Enrico teneva ben fermo con le mani sul muro
il manifesto non ancora incollato, che due fari apparvero in fondo alla strada.
Le luci dell’auto si fermarono a una distanza di una ventina di metri, e loro
si sentirono scoperti. Nessun panico, cercarono di riavvolgere velocemente il
manifesto e di andarsene, ma qualcuno, nascosto dietro alle luci abbaglianti, disse
a voce alta ed imperiosa: “Fermi!”.
Se c’era una
speranza quel grido la tolse in un attimo: Enrico lasciò tutto quanto per
terra, corse allo scooter e lo mise in moto, mentre l’altro saliva con un salto
sopra la sella. Intanto quell’auto si era mossa, era dietro di loro di pochissimi
metri, ed Enrico immaginava già una pistola della polizia fuori dal finestrino,
e qualcuno che fra un attimo li avrebbe arrestati, sbattuti nel muro,
perquisiti, ammanettati, portati in Centrale e lasciati su una sedia per il
resto della notte. Un copione già visto, esperienze già fatte tra loro
militanti di vecchia data.
Ma al primo
angolo, con una manovra un po’ ardita, Enrico si gettò con lo scooter verso
destra, nel tentativo di raggiungere un tratto di strada pedonale, che
conosceva bene, davanti alla facoltà di Lettere, dove con l’auto non avrebbero
potuto passare per via delle catene che impedivano il transito, e loro, dal
marciapiede, sarebbero potuti sfuggire. Invece la ruota davanti scivolò, quel
motorino mezzo scassato non volle collaborare per niente, e loro due andarono a
cadere sull’angolo del marciapiede. Enrico sbatté violentemente la testa, e con
l’adrenalina in circolo e il cuore che pompava all’impazzata, tentò di
rialzarsi come per continuare la fuga, finendo per accasciarsi subito dopo,
mentre l’auto, senza fermarsi, accelerava lungo la strada e spariva in un
attimo. La macchia di sangue si era allargata in un attimo, Enrico perdeva i
sensi cercando di dire qualcosa all’amico, l’altro era preda del panico.
Le elezioni
universitarie non andarono bene per la loro organizzazione, Enrico uscì
d’ospedale solo diverse settimane più tardi, con la testa ancora rasata e
fasciata, ma la sua ferita adesso era per lui quasi un vanto, un
incoraggiamento, una sfida a portare avanti le idee in cui credeva, per il bene
di tutti.
Bruno
Magnolfi
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