Certe volte si passeggiava a caso, senza uno scopo. Si andava
incontro a qualcosa del quale non si era certi di voler davvero conoscere, ma
di cui senza dubbio eravamo curiosi. Quasi ci perdevamo, ogni volta, attorno alla
descrizione di un minuto dettaglio, o rapiti dalla invadenza di un particolare
che funzionava da fulcro. Si piangeva ridendo, dentro noi stessi, pensando e
immaginando la storia che aveva consumato le strade, le case, le facce, le
espressioni di persone che a mani nude avevano plasmato le idee. Ci
meravigliavamo di tutto, quasi sempre, e ci sentivamo migliori ogni volta che
le parole soffuse parevano adatte a descrivere le nostre emozioni. Poi si
trovava migliori anche coloro che al bar della stazione ci servivano un caffè
impersonale, che dentro a luci al neon spietate continuavano con il proprio
lavoro nelle tarde ore serali come se tutto fosse ordinario, consueto, niente
che sostituisse la norma. Ci salutavamo a notte inoltrata, quando tutto tendeva
al silenzio, con la certezza di proseguire ogni gesto, ogni pensiero, ogni
emozione, bastava ritrovare la sera giusta, e ritornare ancora a passeggiare a
caso, senza uno scopo. Poi arrivavano le giornate peggiori, quelle che ci
facevano sentire incapaci, inconcludenti, inutili per gli altri e persino a noi
stessi. Allora ci si rimboccava le maniche, ci facevamo forza sul filo di
qualche telefonata e si cominciava a far girare il cervello; si ritornava in
facoltà, si prendevano appunti su orari, lezioni, assistenti, si prendevano in
prestito i libri in biblioteca o si trovava da qualcuno le benedette dispense,
poi lo studio stritolava ogni altro pensiero. Non erano gli esami a spingerci
avanti, era quel benedetto senso di colpa, quell’incapacità latente che avevamo
di costruire il futuro sulla base di elementi riconosciuti dagli altri, che non
fossero soltanto un’accozzaglia di sogni e fantasie che non avrebbero mai
trovato seguito, per i quali forse ci torturavamo inutilmente. Una ragazza mi
disse: “Sei qui per sostenere l’esame?”; ed io, che non avevo neanche un
vestito decente e i miei capelli erano sicuramente in disordine, risposi
soltanto: “No, sono l’assistente, ho solo fatto un po’ tardi…”.
Bruno Magnolfi
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