La
luce dell’alba filtra nella stanza spandendosi in un colore azzurrino
innaturale. La notte è scivolata via come sempre, accompagnata nel suo viaggio
ordinario dai tanti piccoli rumori lontani e incomprensibili fuori dalle
finestre ferrate. Sono già sveglio nonostante la forte dose di sonnifero che il
mio custode mi ha fatto ingollare ieri sera. Qua dentro tutto sembra fatto
apposta affinché ogni notte scorra via senza tanti problemi. Tra poco comunque inizierà
la confusione di ogni giorno, gli urli insensati di qualcuno, le sedie
rovesciate, i richiami a voce alta dei custodi. A volte loro dicono che è
meglio se i matti scaricano la loro agitazione durante la giornata. Io li
chiamo così gli infermieri del reparto, come gli agenti di custodia delle
galere, perché alla fine non ci trovo molta differenza.
Siamo tutti
divisi a categorie: ci sono gli agitati e i tranquilli, a diversi gradi. Io
sono considerato uno dei tranquilli, e generalmente vengo lasciato fare. Per
questo sono riuscito sempre a girare in lungo e in largo per tutta la clinica,
e nessuno mi ha mai troppo controllato. Davanti al reparto c’è un giardino dove
i custodi piazzano tutti i matti a godersi il sole. Intorno al giardino c’è un
muro alto: da diverso tempo mi sono messo in testa di vedere cosa c’è
dall’altra parte, e negli ultimi giorni ho deciso che lo devo scavalcare.
Ho iniziato a
pensarci per tempo, come tutte le cose che desidero far bene, ed ho predisposto
le cose con tutta la calma necessaria. C’è un punto del muro che rimane dietro
un albero, coperto alla vista. Ho piazzato proprio lì una sedia, una di quelle
che stazionano sempre sparse nel giardino, e sopra conto di metterci all’ultimo
momento qualche libro, per ottenere un piano ancora più alto. Con i piedi sopra
la sedia riesco a toccare la cima del muro, ho fatto già la prova qualche
giorno fa. Devo solo attendere il momento più opportuno, quando nessuno dei
custodi si trova nel giardino, e magari nessuno degli idioti al sole sta lì ad
osservarmi.
Non so cosa ci
sia di là dal muro, però so che c’è vita, sento i rumori della strada, sono
sicuro che riuscirò a scoprire qualcosa di importante. Non sono sicuro di voler
davvero andare via da qui, però sento dentro di me una curiosità irresistibile.
Per tanto tempo ho camminato lungo il muro, ne ho accarezzato la superficie, mi
sono immedesimato nelle sue pietre intonacate e ormai screpolate dal tempo e
dall’indifferenza. Adesso ho voglia di scavalcarlo questo muro, perché tutto
qui è monotono: orari stabiliti, procedure collaudate, comportamenti standard.
Però mi sono anche affezionato a lui, a questo muro, e in fondo non so neppure
bene dove potrei andare una volta che starò con i piedi a terra dalla parte
opposta, ma la cosa di cui avrò maggior piacere è vedere l’altra faccia del
muro, quella della gente libera.
Potrei
chiedere di vederlo ad uno dei custodi, l’esterno del muro della clinica, e
forse il direttore darebbe il permesso per andare a farci un giro. Ma a me non
piacerebbe: ho bisogno di presentarmi a quel muro e fargli capire che sono io,
che sono libero, che lo sto guardando da persona, non da ammalato come gli
idioti che rimangono qui dentro. Gli voglio bene a quel muro, lo sento come una
parte di me. Il dottore una delle ultime volte ha detto che io sono freddo, non
mi interesso di nessuno: però io non gli ho detto del muro e di quanto ci tenga,
e lui non ha capito niente.
Poi,
all’improvviso, alla fine della mattinata un matto dà fuori di testa, e i
custodi corrono ad evitare guai grossi. Capisco che è quello il momento, tutti
sono occupati, nessuno bada a me. Salgo su, mi sorreggo con la mano, una bella
spinta e sono sopra al muro, coperto da quell’albero frondoso. Velocemente
lascio scivolare i piedi dall’altra parte, e con un salto cado a terra. Ci
sono, nessuno mi ha notato, ce l’ho fatta. Mi guardo attorno velocemente, e in
un attimo, come dentro a un’istantanea sgradevole, mi appare tutto brutto. Sono
sopra al marciapiede, davanti c’è la strada piena di veicoli, mi chiedo dove
posso mai andare adesso che sono qui, in mezzo a questa confusione. Tutto è disgustoso,
non riesco a immaginare neppure come muovermi, il traffico mi paralizza, mi
sembrano tutti più pazzi di quelli che stanno nella clinica.
Poi, dopo un
primo momento di apprensione, mi volto verso il muro: non è possibile, mi pare
un incubo, all’improvviso mi sembra che tutto quello che ho fatto e in cui ho
sperato sia stato un fallimento, come tutto quanto dentro alla mia vita. Cado a
terra in preda al panico, non riuscirò mai a muovermi da qui, a risollevarmi da
questa assurda situazione: il muro è uguale, è identico da questa parte, lo
stesso intonaco screpolato, lo stesso colore, proprio lo stesso, il medesimo di
quello che è all’interno. Piango, batto i pugni sulle pietre, spero solo che
vengano a riprendermi, presto, per favore, e che mi facciano ingollare un po’
di quel loro sonnifero: voglio dormire, profondamente, dimenticare in una sola
notte tutto questo.
Bruno
Magnolfi