I pomeriggi
della domenica erano quelli che Francesco detestava di più. Mangiava gli zucchini
ripieni, la pasta col sugo, una fetta o due di ciambella ancora tiepida del
forno. Il babbo e la mamma parlavano, parlavano sempre, e gli dicevano di
prenderne ancora se non voleva rimanere così mingherlino, ma lui masticava con
calma, lasciava che loro finissero prima di lui. Quei loro discorsi non lo
interessavano, piuttosto osservava i bicchieri, la tovaglia, le briciole di
pane cadute.
Poi si metteva lì in piedi, una
volta terminato anche lui, in fondo alla medesima stanza, a guardare con
apparenza distratta fuori da quella finestra, imbambolato nella solita immagine
di luce, di strada e di case oltre quei vetri, come proiettandosi fuori, immaginando
qualcosa in quelle chiazze di cielo, di asfalto, di muro, che non avrebbe mai saputo
descrivere, ma che erano lì, come una carezza sul viso.
La mamma,
mentre sparecchiava la tavola, inevitabilmente gli chiedeva se avesse fatto già
tutti i compiti di scuola, lui spesso rispondeva con un’affermazione sfuggente,
annoiata, come se la sua solitudine, con quella domanda, fosse stata violata. Gli
piaceva quel brusio di televisione che sfiorava la sua fantasia, gli piaceva
sapere che era presto, che aveva a disposizione un sacco di tempo per decidere
cosa inventarsi. Ma non riusciva a decidersi a niente: sapeva perfettamente
dove ritrovarsi con i suoi amici, che cosa avrebbero fatto quando fossero stati
assieme in due o in tre, ma c’era un gusto incredibile nel ritardare l’inizio
vero di quel pomeriggio, lasciare che tutto sfumasse in qualcosa che non
riusciva neppure a comprendere.
Poi Francesco
chiedeva distrattamente se poteva uscire di casa, quasi cercando un
impedimento, un qualsiasi problema, ma qualche volta lasciava che suo padre,
mentre aiutava la mamma, gli chiedesse come mai non fosse già uscito. Era in
quei pochi momenti che lui si sentiva già altrove, come se i suoi desideri si
fossero già proiettati da qualche parte, e lui rallentasse quel tempo per
gustarne ancora con calma le tante possibilità che ancora immaginava di avere.
Prendeva la sua giacca, con modi svogliati, chiudeva la porta dietro di sé, si
incamminava scendendo le scale così lentamente da riconoscere uno per uno i
gradini di marmo, con le loro venature irrazionali e più scure, quasi seguendo
ancora una pista che forse lo avrebbe portato lontano da tutto.
C’era un
sottile filo di angoscia in quel suo incedere trasognato, come un andare a
scontrarsi con qualcosa ormai inevitabile. Era un fatto nervoso, aveva detto il
medico di famiglia, quel mal di stomaco che a volte sentiva Francesco in quei
pomeriggi della domenica. Non era un vero problema. Infine socchiudeva il
portone ed era già lì, su quel marciapiede. La strada periferica in quei
pomeriggi era quasi sempre deserta, e Francesco qualche volta si sedeva sopra
un gradino poco più avanti. Tra poco sarebbero arrivati i suoi amici, si
sarebbero salutati, avrebbero parlato delle solite cose e poi in qualche modo
avrebbero fatto passare anche quel pomeriggio, ma lui sapeva da subito che
avrebbe perso qualcosa: sarebbe stato con gli altri, insieme agli altri,
avrebbe fatto quello che facevano loro, tutto ciò che la loro età richiedeva, ma
la sua solitudine sarebbe stata inevitabilmente tradita.
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