Dietro
al sipario della mia scrivania, di questi fogli, delle cartelle, di tutti gli insopportabili
incartamenti che si ammucchiano, e di quelle pratiche delle quali, da quando
sono entrato qua dentro, vincitore come molti di un qualsiasi concorso per
impiegato comunale, devo occuparmi per ruolo, per posizione lavorativa, per
mestiere, non posso fare altro che abbassare lo sguardo su un punto qualsiasi e
restarmene lì, senza più alcuna volontà di essere né una persona né un
impiegato comunale.
Qua
dentro spesso si parla di gente che viene da fuori, che toglie ogni
caratteristica a chi ha sempre vissuto in questi paesi, in queste campagne, nel
territorio di qui; si parla sempre degli altri in termini strani, come di chi
ha avuto la fortuna di essere arrivato, in qualche maniera, e di potersi godere
questi paesaggi, questa economia superiore, questa cultura che sembra più millenaria
di ogni altra. Chi non pensa così, almeno nei corridoi tra questi uffici, irrimediabilmente
è fuori dalla mentalità più corrente.
Il mio capo
certe volte viene da me, chiede qualcosa, parla con voce leggermente più alta
di ciò che sarebbe normalmente necessario; parla della pratica numero qualcosa,
dandosi importanza per tenere a memoria una filza di numeri, di nomi, di
situazioni da prendere in esame, come se li avesse tutti con sé, sotto agli
occhi, in mezzo alle dita. Poi, mentre torna nel corridoio, dice Batistini,
senza guardarmi, ma a voce forte per farsi sentire da tutti, mettiamoci più
grinta, più slancio, non addormentiamoci su queste sciocchezze. Io osservo la
luce dalla finestra e mi sembra lontana. Sposto qualche carta, riprendo il
lavoro, metto da parte le cose che trovo via via, quelle che appaiono strane,
da chiarire, da approfondire. Quando torno ad osservare ancora la finestra la
luce si è spostata, i colori sono cambiati. In fondo tutto subisce variazioni
continue, penso, anche dentro ad un ufficio grigio e impietoso come quello.
Spesso i miei
pensieri assumono una grande capacità di astrazione che mi porta lontano dal
luogo dove mi trovo, ma questo è l’unico modo che mi fa sopravvivere in questa
realtà che sento distante. Nessuno si spiega i miei modi, qualcuno forse pensa
che io sia ritardato. Certe volte credo che non ci sia alcuna necessità di
spiegare ad altri cosa io sia: sono così, nessuno deve preoccuparsi,
semplicemente mi chiedo se i miei colleghi provano le mie stesse identiche
sensazioni, pur non ammettendolo. Non ci vuole poi molto a sentirsi lontani, basta
osservare qualcosa, incuriosirsi, immaginarsi piccole variazioni nella realtà,
minuti cambiamenti inaspettati, e tutto il resto viene da sé.
Certe volte mi
sento come un tizio dentro a un locale da ballo che resta per un’intera serata
ad osservare una coppia ben affiatata che continua a danzare al ritmo di salsa,
con grande impegno psicofisico, variando continuamente le figure e
compiacendosi di essere guardata almeno da quello, da quel signore
dall’espressione indecifrabile, visto che il locale praticamente è deserto.
Trovo una bellezza straordinaria nell’intesa tra i due ballerini: fanno
qualcosa che io non potrei mai sognare di fare, forse hanno una cultura diversa
da me, forse sono proprio diversi, differenti dai miei modi di sentire la
musica, accarezzare quel ritmo, muoversi inseguendo dei gesti difficili e
profondamente calibrati. Mi affascina la loro cultura che neppure conosco, ma
non vorrei mai danzare come riescono a fare: mi basta apprezzare quello che mostrano,
seguire il loro accordo perfetto, e riconoscere la fortuna che ho di poterli almeno
guardare, sentire la loro presenza vicina, quasi come se qualcosa del mondo
fosse con me.
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