venerdì 23 luglio 2010

La realtà fuori da qui.

            

            Solo, tra queste stanze che conosco a menadito, mi intrattengo con i pensieri di sempre mentre cerco di trovare una forma diversa alle mie giornate. Viene una donna ogni giorno per un paio d’ore, mi porta qualcosa per pranzo, si occupa della mia casa. Il resto del tempo per me è composto da luci basse, silenzio, piccoli spostamenti dentro l’appartamento. Una volta alla settimana viene un’assistente del servizio sanitario, generalmente il giovedì, certe volte arrivano in due, si piazzano seduti, mi guardano, riempiono i loro questionari, fanno delle domande ripetendo spesso anche le medesime.
            L’altro giorno, mentre ero andato a prendere qualcosa in un’altra stanza, ho sentito che dicevano tra loro che non era più il caso di tenermi da solo, e secondo uno dei due era opportuno chiudermi dentro una clinica, anche se l’altro sembrava più cauto. Così ho deciso immediatamente di fuggire. Il mio problema è che da anni non esco di casa, probabilmente da quando è morta la mamma: quella volta mi chiusi nel più profondo silenzio, e per mesi non detti retta a nessuno. In seguito riuscirono a farmi riprendere a parlare e a mangiare, ma poi non ho più voluto abbandonare le stanze del mio appartamento.
            Solo pensare alle strade, alla città, a tutta le persone che camminano come tante formiche lungo quei marciapiedi, mi prende un tremore profondo, una repulsione che non so controllare. Sento il mio corpo muoversi goffamente, percepisco il mio essere inadatto alle cose degli altri. La mia testa non riesce a pensare la fretta, prendere decisioni, avere iniziative. Eppure adesso sa cosa deve affrontare. Voglio andar via, anche se non so dove, perché così resto prigioniero della mia inadeguatezza, restando qui lascio che altri decidano tutto per me, della mia vita, delle mie giornate composte esclusivamente di pensieri e ricordi.
            L’ultimo questionario degli assistenti era diverso, trattava anche di cose intime, mi ha messo fortemente a disagio e così ho rifiutato di collaborare. Allora mi hanno osservato, fermi seduti davanti a me come stavano; hanno parlato tra loro sottovoce senza farmi capire, sono tornati a guardarmi tante e tante altre volte. Hanno scritto qualcosa sopra quei loro fogli, d’altronde come hanno fatto ogni volta, poi hanno alzato gli occhi e hanno ripreso di nuovo ad osservarmi. Voglio fuggire da queste persone, pensavo, devo proprio decidermi a farlo.
            Ho atteso che la donna che si occupa della mia casa avesse finito con le sue attività, ho risposto al saluto quando si è messa il soprabito per andarsene via, ho lasciato che chiudesse la porta del mio appartamento alle sue spalle. Per un attimo ho immaginato di essere lei. Poi ho preso l’impermeabile dentro l’armadio, l’ho indossato e ben chiuso con tutti i bottoni, infine ho aperto la porta, ho lasciato un saluto alla mamma e sono uscito. Era pomeriggio, mi sono subito reso conto di questo, e per le scale non ho incontrato nessuno, quindi ho preso a camminare lungo la strada. 
            Ho vagato a caso senza badare a niente, se non al mio camminare e basta, ma poi alla fine mi sono sentito stanco e vuoto di tutto. Non so dove mi trovassi, ma quando ho visto una persona in uniforme ho detto a voce alta il mio nome e con un certo tremore ho chiesto se poteva aiutarmi. Non posso decidere da solo, ho pensato. Devo parlarne con la mamma, ho detto alle persone che avevo intorno, forse devo portarla assieme a me quando faccio le passeggiate. Perché senza di lei non ho mai fatto niente, non posso certo iniziare in questo momento.


            Bruno Magnolfi

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