I due
ragazzi si ritrovavano ogni giorno, dopo la scuola elementare, all’ombra di uno
stretto edificio scalcinato edificato da solo nel niente, del quale si diceva
che fosse un’importante centralina della corrente elettrica di quel quartiere
periferico. I cavi neri e ben tesi su in alto arrivavano da un lato e
dall’altro ripartivano, e continuamente si sentiva ronzare qualcosa
all’interno, ma di fatto era proprio da lì che iniziava la campagna, con la sua
terra incolta che oltre quelle ultime case era attraversata da sentieri di
buche fangose ai cui bordi venivano scaricati cumuli di immondizia e di
calcinacci.
Loro si ritrovavano proprio
sotto quella cabina, come sul confine di qualcosa, e si sedevano sopra una
pietra liscia e lunga, a parlare sottovoce di tutto, a far passare quella
giovinezza da fratelli minori che il più delle volte erano portati ad odiare.
In casa erano quelli cui nessuno badava, posti a sedere alla tavola che non
contavano niente, costretti ad ascoltare tutti gli altri della famiglia
restando perennemente in silenzio.
Le loro teste dai capelli
cortissimi erano continuamente toccate dalle mani dei loro tanti fratelli, per
scherzo, rimprovero, richiesta d’attenzione, tanto che crescere in fretta e
sfuggire a quei modi era la cosa che forse desideravano di più. I loro pensieri
erano già come dovevano essere, da grandi, e le loro risate spensierate nemmeno
un ricordo; non avevano biciclette, non avevano pattini, il prossimo anno
avrebbero dovuto cercarsi un lavoro, e per adesso riuscivano soltanto a
ritrovarsi lì, loro due, all’ombra di quella cabina, e qualche volta andare a
cercare qualcosa di utile tra i cumuli di immondizia e di calcinacci.
Fu un giorno qualsiasi, quando
il caldo di quel giugno si era già fatto opprimente, e l’erba alta là attorno
aveva lasciato seccare al sole i suoi steli, donando a quell’aria un profumo di
terra riarsa, di paglia bruciata e di polvere fine. Luccicava qualcosa più
avanti, loro due si avvicinarono con circospezione, guardandosi attorno. Erano
soli, e lì, a margine di qualche asse marcio e imbiancato, c’era rimasta una
radio, una di quelle vecchissime, enormi, con il mobile di legno mezzo
scassato, però con tutti i pulsanti e le rotelle al loro posto.
La presero, la portarono ai
piedi della cabina, e immaginarono funzionasse, visto che c’era anche il filo
della corrente e la spina. La nascosero, e fu il giorno seguente che cercarono
di forzare la porta della centralina elettrica, tanto per vedere se al suo interno
ci fosse stata una presa, per provare se la radio funzionasse davvero. Il
lucchetto saltò dopo una certa fatica, e loro entrarono dentro, lasciando
girare con sforzo la porta di ferro sui cardini arrugginiti. Misero dentro la
testa, tra ragnatele robuste, quel tanto che era sufficiente, cercando
velocemente di adattare gli occhi a quel buio, immersi dentro al ronzio adesso
fortissimo dei trasformatori. La scarica di corrente e la fiammata li colse
ambedue, non ci fu alcuno scampo per loro, e forse l’elettricità saltò in tutto
il quartiere, tanto l’assorbimento fu forte. Restò lì, ai piedi dei sogni, la
loro pietra, rifugio dei pensieri da grandi, e quella radio, quella radio
vecchissima, che forse non funzionava neanche.
Bruno
Magnolfi
Nessun commento:
Posta un commento