martedì 6 luglio 2010

Lungo un qualsiasi marciapiede.

           

            L’uomo, da solo, scruta il piccolo tavolo tondo e la sedia dove intende mettersi comodo. La sua giornata è già colma di indecisioni, sente che il tempo scivola inevitabilmente e lui non riesce a dare un indirizzo alle cose. Ha guardato le sue scarpe camminare, ha sentito la sua voce riferirsi a qualcuno, ma questo non ha significato alcunché. Forse neppure gli interessa dare un senso preciso al suo giorno, forse la sua ricerca di faccende di cui occuparsi è solo l’ennesimo tentativo per scoprire qualcosa di se stesso. Infine si siede, ma dopo un primo momento reputa inutile e quasi dannoso quel gesto.  Il locale gli piace, c’è calma, ogni cosa sembra stare ben posizionata al suo posto, e fuori dalla vetrata la strada al contrario continua ad essere l’anarchica mescolanza di tutto.
            Si avvicina con metodo un cameriere, chiede gentilmente cosa desidera, l’uomo dice, senza guardarlo, il piatto del giorno e un quarto di vino. Non ha fame, è evidente, ma l’abitudine a sedersi ad un tavolo e di mangiare a quell’ora che spacca la monotonia della giornata è così forte che non si sente in grado di fare resistenza. Ha un piccolo notes dentro alla tasca, lo estrae, rilegge gli appunti delle cose che avrebbe voluto fare quella mattina, si rende conto che non ne ha compiuta nessuna.
            Niente di nuovo, è normale perdersi in mille altre cose che per via gli vengono a mente, anzi, forse il suo incaponirsi ad annotare le cose da fare, ha proprio il senso della smentita, del disattendere scientifico di ogni proposito. Che cosa può essere mai una giornata qualsiasi, trascorsa da solo girando per strada con mille pensieri e altrettante divagazioni, se non lo scegliere a braccio in ogni momento le cose da fare, decidere volta per volta dove andare, dove fermarsi, in che cosa occupare un po’ di quel tempo?
            Nel bar-ristorante c’è poca gente, ognuno di loro nuota all’interno della propria indifferenza per tutto, il cameriere si affretta a servire le ordinazioni per restarsene poi immobile in qualche angolo fuori dalla vista. In fondo alla sala c’è un uomo, da solo, potrebbe essere lui. Ha finito già di mangiare, così legge il giornale, aspetta, lascia trascorrere il tempo. Non c’è niente che assomigli ai suoi gesti, ai suoi modi di fare, eppure qualcosa li unisce. Infine si alza, saluta con un gesto il cameriere, passa vicino al suo tavolo tondo ed esce, senza alcuna incertezza. 
            L’uomo vorrebbe alzarsi a sua volta, raggiungerlo, chiedergli di spiegargli dove stia il suo errore, perché continua a sentire dentro di sé l’angoscia di aver solo perso del tempo, di non essere riuscito neanche stavolta ad essere utile, di non aver messo a frutto di nuovo quel tempo che continua a scorrere e a finire nel niente. Poi osserva quel suo simile mentre scorre lungo la strada, oltre la vetrata, dove il marciapiede è ingombro di gente: niente ha senso, riflette; va accettato così tutto quanto, sollevare la testa dai propri pensieri e camminare verso qualcosa, lungo un qualsiasi marciapiede.


            Bruno Magnolfi

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