Siamo
arrivati, aveva detto Fiorenzo spengendo il motore dell’automobile. Dorina si
era guardata attorno, aveva lasciato una pausa, quasi come a togliersi per un
attimo da dentro alle orecchie il rumore delle ruote che avevano a lungo
sbattuto sul fondo sconnesso di quel viottolo sassoso, quindi, assaporato
brevemente il silenzio di quel luogo quasi sperduto, aveva azionato la maniglia
per scendere. Non avevo immaginato fosse così, aveva detto movendosi con attenzione
per evitare di mettere i piedi su una pietra o dentro a una buca. Quando me ne
parlavi pensavo ad un luogo più misterioso.
Già,
disse lui; ma pensa che quando venivo fin qui avevo meno di quindici anni, e
insieme ai miei amici tagliavamo a piedi per i campi, costeggiando i fossati,
ci impiegavamo quasi un’ora camminando veloci, e a noi ci appariva un posto
meraviglioso forse già soltanto per questo. Avvicinandoci ricordo che parlavamo
a voce sempre più bassa, in modo da non rompere niente di quella magia che
sembrava aleggiasse nell’aria qua attorno. Si camminava più lentamente, ci
pareva d’essere quasi in un cimitero, un luogo da rispettare, come se chi aveva
abitato questo posto, chissà quanti anni più indietro, fosse ancora qui, da
qualche parte, a riposarsi.
Davanti
a loro, adesso, coi muri avviluppati di rovi e di erbacce, faceva mostra di sé
un gruppo di case vecchissime, mezze diroccate, probabilmente lasciate a se
stesse da decenni, che formavano tra loro come un piccolo borgo racchiuso, che
delimitava uno spazio comune, un’aia interna, una piazza, probabilmente una
volta con il pavimento lastricato e ben liscio. La giornata era leggermente
ventosa, qualche nuvola bianca correva nel cielo come per star dietro a una
sfida, ogni tanto lasciando sfilacciare una coda, o uno sbuffo di margine. Gli
alberi di leccio e di faggio poco più avanti muovevano ogni tanto le chiome, e
là attorno, oltre al fruscio delle foglie, non si sentiva nessun altro rumore.
Si
avvicinarono a quei muri quindi, entrarono in quello spazio deserto, e Dorina
disse: chissà come doveva essere tutto, quando queste case erano ancora
abitate. Magari c’erano tre o quattro bambini che tutto il giorno lo passavano
qui, a rincorrere le galline e a nascondersi tra i carri di legno e le mucche.
Si, ma non è questo, diceva Fiorenzo. Qui è rimasto tutto così perché non
interessa a nessuno un posto del genere, e questo sembra incredibile. Dai,
tirati indietro i capelli, aggiunse, vorrei fotografarti con lo sfondo di
questi muri in rovina. Dorina iniziò a mettersi in posa, Fiorenzo a scattare le
foto con la sua camera digitale semiprofessionale, e andarono avanti così per
più di mezz’ora.
Infine
smisero; Fiorenzo si piazzò ad osservare i risultati che aveva raggiunto e
Dorina girò dietro ad una di quelle case, come a cercare qualcosa. Si accese
una sigaretta, respirò il vento senza pensieri, poi si sedette sopra una
pietra. Era da tanto tempo che lui le aveva promesso di portarla fin lì, ma lei
adesso, chissà come, si sentiva delusa. Non di quel luogo, in effetti, quanto
della incapacità di Fiorenzo ad essere pratico, a vedere le cose com’erano.
Spense la sigaretta, guardò gli alberi che si muovevano leggermente poco
lontano, infine si volse. Fiorenzo era lì, la stava osservando. Rimasero in silenzio,
quasi con un po’ di imbarazzo, infine lui disse: andiamo, dai, torniamo alla
macchina, le immagini non erano belle come avevo immaginato, questo posto è
strano, sembra non voglia collaborare, comunque avremo altre occasioni per fare
delle fotografie diverse e migliori, intanto, quelle di oggi, le ho
cancellate.
Bruno
Magnolfi
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