Il
sipario si apre su una scena fiocamente illuminata, dove un uomo in pigiama sta
seduto sul letto, con i piedi a terra calzati in un paio di pantofole, e la
testa sorretta dalle mani i cui bracci, nel punto del gomito, sono appoggiati
staticamente sopra le ginocchia. Entra energicamente un medico in camice
bianco, lo guarda, scorre qualcosa su una cartella clinica, poi gli chiede:
allora, signor settantadue, come andiamo oggi?
Il signor Mauri alza lentamente la testa, ci pensa un attimo, poi
risponde: come sempre, dottore; la spossatezza e i dolori che provo non pare
vogliano abbandonarmi, capisco che non sia questo ciò che lei vorrebbe sentire
da me, purtroppo non posso dirle una cosa diversa.
Il
mio entusiasmo di vivere ormai è ridotto a poca cosa, continua il signor Mauri,
ogni tanto ripenso al mio passato, i tempi lontani quando la mia salute era
perfetta, ma adesso non saprei neanche più decidere se io sia riuscito a
godermi appieno quella stagione della mia vita, oppure no. Non creda, non provo
alcuna nostalgia delle cose che adesso non riuscirei assolutamente a rifare,
sarebbe troppo stupido pensare una cosa del genere, piuttosto mi perdo certe
volte nel cercare di mettere a fuoco quali siano gli aspetti che adesso, con le
ridotte capacità del mio stato, potrei ancora sviluppare.
Lei
non deve assolutamente sganciarsi dall’entusiasmo, dalla voglia di vivere,
signor settantadue, dice il dottore mentre continua ad osservare alcuni fogli
con i risultati delle ultime analisi. Ne andrebbe di mezzo la medicina, tutta
intera la scienza addirittura, se lei non aiutasse il percorso farmacologico
per la sua guarigione. Se non sussiste questa collaborazione tra lei e ciò che
io rappresento tutto qua appare inutile, senza significato, probabilmente
destinato a un fallimento sicuro.
Ha
ragione, dottore, dice il signor Mauri, però converrà con me che se io in
questo frangente non trovassi qualcosa di fondante per cui dare una mano, come
dice lei, alla sua medicina, non avrei alcun bisogno di preoccuparmi, oltre
delle mie condizioni, anche del fatto che lei e la sua scienza facciano fiasco.
La sua oggettività nell’osservarmi, per esempio, mi lascia del tutto
indifferente. Anzi, proprio questa incapacità sua e dei suoi colleghi a
mettersi nei panni degli altri, degli ammalati che vengono visitati e ai quali
vengono impartite le cure più adatte, mi lascia assolutamente perplesso. Se non
viene indagato e compreso il mio stato nel suo complesso, la mia condizione di
persona, ancor prima che di ammalato, soprattutto a partire dalla mia concreta
volontà di guarire, credo che non ci sia un’altra effettiva possibilità di
collaborazione.
Via,
dice il dottore, cerchi di non complicare le cose: il suo stato di salute non è
a livelli drammatici, con un minimo di spinta possiamo uscire da questa fase di
ospedalizzazione e riprendere a fare la vita di sempre. Lei guarisce, la mia
medicina è vincente, il risultato è raggiunto.
Forse,
dice il signor Mauri, sempre che io riesca a ritrovare la spinta per uscire da
questo stato di ammalato perenne con cui ormai
mi avete bollato qua dentro. Vede, il problema è che io ultimamente
penso tutto quanto ormai solo in funzione di ciò che mi fa male oppure no; di
ciò che riesco a fare con la debilitazione che ho, oppure no; di quanto tempo
avrò prima della prossima trasfusione di sangue, o della prossima iniezione da
subire, o delle analisi a cui devo sottopormi. In tutto questo si è persa la
persona che ero, non basterà uscire da qui, sarò marcato per sempre. Ma in
fondo, non ha alcuna importanza quello che cerco di dirle: lei uscendo dalla
mia stanza dirà ai suoi colleghi che qua dentro c’è un paziente insopportabile,
uno di quelli a cui non basta far di tutto per restituire a lui la salute; uno
che probabilmente vorrebbe un miracolo: far diventare uomo un ammalato; e
questo, probabilmente, nella sua medicina, non è neppure contemplato.
Bruno
Magnolfi
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