Cosa
farà mai questo tempo, che adesso ha ricominciato ancora a piovere e sembra
quasi non voglia smettere più. Le foglie lucide, la terra scura, la ghiaia del
vialetto che appare bianca e pulita da tutta la polvere. Guardo dalla vetrata
lo spicchio di giardino davanti alla nostra palazzina, e mi sembra che niente
possa cambiare da ora in avanti; non mi spavento, al contrario, questa
riflessione mi concede sicurezza in me stessa, non sento il bisogno di
premunirmi, fino a quando potrò stare qui so bene che non avrò niente da
temere, la pioggia non mi bagnerà mai, e dentro a queste mura bianche mi
sentirò sempre protetta.
Giro
lungo i corridoi, in silenzio come sempre, mi tengo le mani una dentro l’altra
e guardo quasi sempre il pavimento, per non mettere il piede in un posto
sbagliato, per evitare inciampi improvvisi. Anche all’ora di colazione, quando
stiamo tutti assieme in sala grande, io sto in silenzio: qualcuno ride ogni
tanto, qualcun altro parla tra sé, ma a me non interessa di nessuno, mangio le
pietanze per conto mio, penso a qualcosa, non so bene che cosa, ma mi va bene
così.
Avevo
un’amica, tempo fa, una che mi prendeva il braccio e mi diceva che ero bella,
sempre ridendo, guardandomi in silenzio e accarezzandomi il braccio. Ma adesso
è andata via. Agli inizi io tentavo di scansarla, ma la dottoressa mi aveva
chiamato, aveva spiegato che dovevo aver pazienza, quella ragazza era in una
fase difficile, dovevo lasciarla fare, come il tempo, come la pioggia, poi le
cose si sarebbero sistemate poco per volta.
Non
mi ero affezionata a quella ragazza, mi pareva anzi quasi un incubo non poter
più fare su e giù lungo i corridoi, come sempre avevo fatto, avanti e indietro
per tutta la nostra palazzina, perché non era possibile evitare di incontrarla,
e lei mi aspettava, mi sorrideva, accarezzava il mio braccio quando stava con
me, diceva sempre che ero bellissima, e poi diceva a volte: cosa importa tutto
il resto, noi saremo sempre altrove. Altrove, diceva, ed io non capivo cosa
volesse dire, e mi dava noia anche questa incomprensione di fondo, e allora mi
scrollavo da quelle sue mani appiccicose, dal suo voler stare continuamente
insieme a me.
La
dottoressa insisteva che dovevo aver pazienza, ed io annuivo. Poi, tutto quanto
cambiò, un giorno qualsiasi. C’era stata confusione, qualcuno si era agitato
più del solito, ma io mi ero tenuta a distanza, avevo i miei pensieri, le mie
cose da riflettere. Arrivarono le sirene, gli altri iniziarono ad urlare, tutto
pareva fuori controllo, io cercavo solo la calma, le mura bianche in cui stare
tranquilla. Mi avvicinai alla vetrata, come sempre facevo, e la vidi lì, sopra
la ghiaia, la mia amica, spiaccicata a terra dopo che si era gettata giù dalla
finestra.
Rimasi
ferma, in silenzio, ma quel sangue rosso sulla ghiaia non poteva passare
inosservato: urlai qualcosa, con tutta la voce che avevo dentro, come a
disperarmi di qualcosa: mi misero subito la camicia stretta, come sempre si
faceva in questi casi, ed io non dissi niente, era senz’altro comprensibile un
comportamento di quel genere. Nei giorni seguenti mi tennero strettamente sotto
osservazione, ma io ero tranquilla, non davo dei problemi. Mi parlarono, mi
fecero tutte le domande possibili; io non dissi niente, cosa c’era mai da
discutere, pensavo, le cose là dentro andavano così, ci si preoccupava di
sciocchezze, certe volte; in altri casi si arrivava a pensare di aver compreso
tutto.
Ma alla fine
quello che importava più del resto era che le mura non crollassero, che il
giardino davanti alla nostra palazzina fosse a posto, che la ghiaia restasse
bianca, non sporca di sangue; ciò che a me pareva importante più di tutto era la
sicurezza che la pioggia avrebbe sistemato tutto quanto. Lo dissi alla dottoressa,
e lei comprese quello che avevo voluto dirle, e fece un gesto come per
abbracciarmi, come faceva l’altra, la mia amica, quella che ormai si era
sciolta nella pioggia, ma io rimasi immobile, era meglio la solitudine
piuttosto che quei gesti appiccicosi.
Bruno Magnolfi
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