Il
ragazzo aveva osservato a lungo quel lento tramonto del sole filtrato
leggermente da sottili cortine di nuvole bianche e neutrali, che nell’occasione
si erano accese di innumerevoli sfumature di colore, dal rosa al purpureo, via
via che la luce andava giocando con loro, scurendo e variando ad ogni minuto
qualsiasi tonalità, senza una sosta. Seduto sopra la panca di legno sul retro
della sua casa, restava incantato ogni volta che ricordava di uscirsene fuori a
respirare quell’aria già fresca in quella stagione, nelle serate sempre più
brevi che andavano inconsapevolmente avanzando. Il sole gli indicava qualcosa
laggiù, lontano, oltre tutte le proprietà del signor Garbanti, superato il
profilo delle colline morbide prima della città, e ancora più avanti, chissà
dove.
Gli
piaceva stare lì, anche nelle sere quando il tramonto non si vedeva: su quella
panca si sentiva vicino ad un mondo diverso, ritrovava una sfumatura così
silenziosa, così spalmata di calma, dove i genitori probabilmente non sentivano
la necessità di urlarsi ogni volta che dovevano dirsi qualcosa, e lui poteva
ascoltare se stesso nei momenti in cui respirava, in cui lasciava battere il
cuore, mentre pensava, con normalità, senza affanni, proteso nel mondo che
vedeva scurirsi davanti, vicino, quasi a portata di mano.
Suo padre, come tutti quanti gli operai
agricoli in quella zona, lavorava per il signor Garbanti, sopra le terre di
quella proprietà immensa, e quel consueto inchinarsi nei confronti di ciò che
quel nome indicava, era forse l’elemento maggiormente destabilizzante per
quelle persone che avrebbero voluto credere maggiormente in se stesse, portare
avanti un’idea propria, un proprio progetto, pur piccolo, però entusiasmante.
Ma niente era possibile là attorno, se non fare così, come facevano tutti.
Pareva
ad ogni momento che quel marchio si imprimesse sopra ogni oggetto, su qualsiasi
elemento che era possibile saggiare con mano, i gesti perfino, proprio come se
la vita stessa fosse determinata da un unico proprietario terriero, una casata
di padroni, che tenesse nelle mani, come attraverso dei fili sottili, le
esistenze di tutta la gente di quella vallata. Inutile anche pensarci, era
così, non c’era altro da fare, se non accettare quella realtà e andare avanti.
Sua
madre ad un tratto disse forte il suo nome, ed il ragazzo sentì dentro di sé
che i suoi sogni al cospetto di un mondo più aperto e più libero erano
destinati a cadere almeno per quella serata. Si sollevò dalla sua panca di legno,
si guardò ancora attorno e immaginò suo padre che coltivava quel pezzo di terra
vicino alla casa. Fantasticò in pochi momenti l’impegno profondo che sentiva
avrebbe assorbito la sua famiglia in una attività di quel genere, e sentì
un’aria diversa sopra di sé, ma fu solo un attimo, un piccolissimo momento
destinato a svanire.
Aprì
con lentezza la porta sul retro, sentì l’odore avvolgente della cucina, vide la
luce della lampadina elettrica che illuminava i volti dei suoi genitori, e
infine si girò, ancora per un attimo solo, verso il tramonto: c’era ancora una
luce laggiù, oltre tutte le terre; un piccolo barbaglio di vita che chiedeva
rispetto, lasciava traspirare il suo sogno, spingeva ancora la fantasia lontano
da lì, ed il ragazzo seppe in quell’attimo catturare l’entusiasmo per una vita
diversa, oltre quella ordinaria che era toccata in sorte a lui e a tutta la
famiglia che lo aveva allevato.
Bruno
Magnolfi
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