Certe
volte, prima ancora che tutti si spieghino, che trovino le parole per dirmi ciò
che hanno pensato, io sento che le loro cose le conosco già, come se avessi già
sentito i loro discorsi, e non avessi bisogno di altro. Non guardo mai in
faccia nessuno, quando mi parlano, non ne ho alcun bisogno; loro dicono
qualcosa, sento il brusio di quei ragionamenti, ma per me è già tutto chiaro,
come non ci fosse neppure bisogno di quei discorsetti. Rido mentre guardo a
terra un punto qualsiasi; rido di quelle parole che già conosco, che ho già
sentito nella mia testa, e nessuno capisce che cosa io abbia bisogno di ridere,
così aspettano un po’, lasciano tutti che io dia loro la possibilità di dire
ancora qualcosa, e intanto mi guardano, come se non mi avessero mai visto in
precedenza.
Io
vorrei ridere soltanto tra me, dico la verità, e giusto di quelle parole, di
quel loro modo di dirmi le cose, come a un bambino, ma non riesco proprio a
resistere: guardo ancora quel punto là a terra, e rido senza riuscire a
fermarmi. Qualcuno scuote la testa, mi guarda e pensa che io non sappia far
altro che quello: ridere e basta. Invece no, loro non lo sanno, ma certe volte
io piango.
Piango
soltanto quando sono da solo, quando nessuno può rendersi conto che io sono
triste. Sono triste perché quelle parole che in precedenza credevo di sapere
così bene, che non avevo neppure bisogno di ascoltare per comprenderne il
significato, quelle che tutti gli altri mi riferivano, che avrebbero voluto
farmi ascoltare, ma che io avevo già compreso, ecco che improvvisamente, quando
sono da solo, si confondono tutte tra loro, si distorcono, si sformano, non
hanno più nessun senso, ed io, derubato di quelle parole, mi sento
completamente svuotato, vuoto di tutto.
Non
lo so perché questo succeda, ma all’improvviso tutto quello che credevo di
conoscere bene cade a terra, proprio verso quel punto che precedentemente stavo
osservando, ed io rimango a vagare nel vuoto, senza niente. E’ allora che piango,
ma loro non se lo possono immaginare neppure, perché mi sento così soltanto
quando sono da solo, e quindi nessuno mi vede.
Quando
ritornano tutti, si mettono subito a dirmi qualcosa, scherzano, pensano alle
parole migliori da dirmi, ed ecco che dentro di me tutto riprende la solita
logica, di nuovo le parole diventano inutili, ed io sento dentro di me tutto
quello che vogliono dirmi. Non parlo mai, io, non ho alcun bisogno di usare le
loro parole, quelli mi guardano, mi fanno le analisi, sostengono che non ci sia
niente che impedisca a me di parlare; eppure non parlo, non dico niente, e alla
fine ricomincio anche a ridere, con le mie risate che lasciano tutti storditi,
delle quali in nessuna maniera io sento di poter fare a meno.
Che
male c’è, in fondo, penso; lascio a loro tutta la logica delle parole, tanto a
me neppure serve, io le cose le capisco senza bisogno di altro, mi basta
guardare per terra in un punto qualsiasi per tornare a ridere forte. Poi un
giorno come tutti quegli altri si mettono in tre a parlare tra loro e a farmi
domande. Io guardo a terra il solito punto, poi dico: silenzio!, sorprendendo
un po’ anche me stesso. Così quelli mi guardano e dopo un po’ se ne vanno. Più
tardi mi fanno entrare dentro a una stanza e dicono che forse la cosa migliore di
tutte è che io inizi a fare qualche disegno.
La
faccenda a me pare interessante, non ho mai fatto cose del genere, però non ho
alcuna voglia di far vedere a loro che mi piace l’idea. Guardo per terra e
infine mi metto a fare dei segni con un dito sporco. Mi forniscono di tutto il
materiale che serve: carta, matite, penne, tutte cose del genere, poi mi
lasciano solo. Io prendo un foglio, lo strofino a terra fino a quando quello si
sporca per bene, poi con il dito ci faccio qua e là delle macchie, e infine
torno da loro. Silenzio, dico a voce bassa mostrando il disegno, e rido di
nuovo, proprio come un pazzo, di tutti.
Bruno
Magnolfi
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