A
piccoli passi, in una luce morbida e calda, con un paio di scarpine celesti,
giunge sul palcoscenico una bambola dal largo vestito di pizzo, un delizioso
cappellino, il viso di meravigliosa porcellana, con grandi occhi brillanti e
labbra rosse; si ferma al centro della scena, accenna un saluto, resta immobile
e in silenzio per un attimo, poi dice: ero stata abbandonata in un angolo della
soffitta, nel buio e nella polvere, e la tristezza dell’immobilità era calata
su di me. Per questo avrei voluto essere viva, per ribellarmi al mio destino,
per andarmene, vedere il mondo.
Con
grande sforzo mossi una mano, voltai la faccia verso un sottile spiraglio di
luce che arrivava da sotto la porta, infine mi alzai in piedi. Non so neppure
come feci a ritrovarmi lungo la strada, forse qualcuno mi aveva messo insieme ad
altra spazzatura, ma io ero riuscita a liberarmi dal sacchetto, e avevo deciso
di cercare qualcosa che valesse la pena di tutti quei miei sforzi.
Passarono
gli uomini, e qualcuno di loro mi prese con sé per un’ora, a volte anche di meno,
riabbandonandomi ogni volta lungo quella strada. A me non importava delle loro
manie, ero felice di scoprire il mondo, mi guardavo attorno e mi pareva incredibile
poter essere lì, in mezzo alle persone vive, dove ogni cosa è possibile
acquistarla ed i soldi girano per rendere tutti contenti e spensierati.
Mi
sollevavano la gonna di pizzo, quegli uomini, è vero, ma io li lasciavo fare,
in fondo era solo il mio corpo di bambola quello di cui abusavano, non dei miei
pensieri, e in cambio quelle persone mi mostravano le loro debolezze, la loro
incapacità ad essere gentili, premurosi, e quel non sapersi comportare era così
lontano dal mondo delle fiabe che certe volte mi meravigliava.
Le
macchine sopra a cui salivo erano tutte uguali, come quegli uomini d’altronde,
ma ognuno di loro cercava a suo modo di essere spiritoso, di lasciare qualcosa
di sé alle sue spalle, come se portasse dentro una grande solitudine, una
tristezza infinita, un’incapacità a vivere bene, in modo solare, senza la
necessità di confondersi con una povera bambola come potevo essere io.
Proseguivo
con la mia scoperta del mondo, e lo stupore più grande era sapere che riuscivo
ad avere dei pensieri sempre più liberi e sempre più complessi, lontani dalla
vita lungo quella strada, e in mezzo a quella gente senza grandi sogni, laddove
i sogni per me, al contrario, erano tutto. Dopo un certo tempo, poi, trovai
qualcuno che mi disse che potevo andare via da lì, che poteva aiutarmi, ed io
lo lasciai dire, per me era tutto nuovo quello che poteva capitarmi, così
sbattei i miei occhi e mi abbandonai a qualunque cosa stesse succedendo, senza
fare alcuna resistenza.
Mi
ritrovai in una casa insieme a diverse ragazze, tutte con la testa piena di
sogni come me, ma che dicevano delle cose orribili, che eravamo tutte segnate, che
non potevamo essere diverse, dovevamo accontentarci di essere un corpo con la
testa altrove, come secondo loro erano quelle che facevano la nostra vita. Io
le ascoltavo, avevo tutto da imparare, però iniziavo a vedere quel mondo come
qualcosa ben più triste di come lo avevo immaginato, e le persone che lo abitavano
delle figure sole, perse certe volte nella ricerca di apparire anche peggiori
di com’erano. Non rimpiansi mai la soffitta da cui ero partita, ma forse lo
feci solo per orgoglio.
Infine
decisi che era venuto anche per me il tempo di parlare, di spiegare agli altri
che cosa avevo visto fino a quel momento, che cosa mi era capitato e tutto
quello che ero riuscita a pensare. Per questo adesso sono qui, per dire a tutti
voi che le illusioni esistono, che spesso non sono neppure così distanti dalla
nostra esistenza, e forse sono anche migliori di tante cose vere.
Bruno
Magnolfi
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