martedì 30 novembre 2010

Il degrado nella luce del giorno.

            

            Si parlava di niente, si scherzava, qualcuno faceva il verso ad un altro, poi tutti ridevano. Non c’era niente di male, si passava un’oretta così, fuori dal bar, seduti sul muro alla fine del marciapiede, o appoggiati ad uno degli alberi al bordo del viale. Il resto della giornata era ordinario, inzuppato della normalità più noiosa, ma la fine del pomeriggio bastava per rimettere a posto le cose. Già, perché se non si trovava l’impulso a tirare avanti, a che sarebbe servito tutto quanto? 
            Qualcuno arrivava fino lì solo per ascoltare, per rendersi conto di come fosse facile divertirsi e ridere di tutto, senza bisogno di piantarsi a credere che quel periodo fosse più triste di altri; anzi, se si trovava la maniera per essere allegri, forse si riusciva a dimostrare che i soliti piagnoni avevano torto, ed era colpa loro se le cose apparivano sempre e solo così. Già, perché era fin troppo facile dire che le cose non andavano bene, era un attimo sparare su tutto, dire che peggio di così non sarebbe stato possibile. Chi si avventurava ad accennare una cosa del genere veniva immediatamente isolato, e lo capiva da sé che era il caso di andarsene.
            Certe sere qualcuno raccontava cosa gli era accaduto nella giornata, spiegava che non avrebbe mai voluto essere coinvolto in faccende così serie come gli era successo, però si era visto costretto a dare relazione a persone particolarmente pesanti, vestite in modo sbagliato, con dei discorsi che parevano usciti da noiosissimi libri di storia. Tutta gente lontana da quell’ora serale, dalla voglia di ridere, di fumare sigarette leggere e bere aperitivi di moda. Cosa ci importa, si diceva, chi sceglie una vita grinzosa faccia pure, ma almeno si tenga alla larga, non cerchi di coinvolgere nei loro problemi chi se ne vuole tenere distante.
            A volte si riusciva persino a far tardi, raccontando cose insensate e dando loro un’importanza superiore a qualsiasi altra faccenda, ma era proprio questo il gioco più bello: divertirsi di niente alleggerendo la testa, vincere la gara a chi si mostrava più indifferente di tutti, a chi se ne fregava delle cose che dicevano sempre i giornali o tutta la gente nata sfigata; c’era un segno diverso nel terminare la giornata proprio lì, questo era il dato più importante di tutto, il resto delle persone poteva andarsene da qualsiasi altra parte. Davanti a quel bar c’era un’atmosfera speciale, nessuno aveva il diritto neppure di dubitarne.
             In certi casi si diceva che presto tutto sarebbe cambiato, oppure che non importava neanche, il vero cambiamento era già lì, tra quelle risate, nella stessa maniera di trattare le cose, come se non ci fosse assolutamente bisogno di affrontare i problemi: era sufficiente sapere di essere tutti concordi, convinti di costituire la parte migliore che quel periodo riusciva ad esprimere. Rimanere al bordo di quel viale alberato, davanti a quel bar, nei confronti di tutti coloro che si trovavano a passavare da lì, era la dimostrazione più chiara di quanto fosse semplice vivere bene e godersi le cose, senza bisogno di intristirsi nei problemi degli altri, anzi, mostrando tutta la sufficienza possibile nei loro confronti.
            Poi, si faceva più scuro, il pomeriggio lasciava lo spazio alla serata incipiente, i lampioni venivano accesi, qualcuno iniziava ad andarsene: a tutto c’è un termine, pareva l’ultima cosa da dire, anche se quanto era stato raccontato, ogni sciocchezza, ogni risata, ogni disprezzo, restava nell’aria, come un concetto superiore alla quotidianità, come un pazzesco ma tangibile brillare di luce, superiore perfino alle tenebre.

            Bruno Magnolfi    

              

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