venerdì 12 novembre 2010

Per le violette fiorite.

            

La casa era silenziosa a quell’ora, la lampada bassa diffondeva nella stanza una luce calda, lei stava seduta sulla sua poltrona preferita, e scorreva le parole delle pagine di un libro, un romanzo che aveva già letto molti anni prima. Le piaceva rivedere le cose che le erano piaciute durante la sua gioventù, era un po’ come ritrovare anche qualcosa di sé, di quelle passate emozioni, di quegli stupori che spesso aveva provato nella scoperta del mondo.
            Le capitava spesso di ripensare qualcosa dei tempi passati, a volte anche senza volerlo, come se i suoi ricordi affiorassero alla mente da soli, composti da una propria vitalità, ma ogni volta lei si mostrava pronta a scacciarli, in dei casi con un gesto, oppure con un sorriso, o con un repentino ritorno al presente, quasi che il tempo dedicato a quei sentimentalismi si dimostrasse a lungo un comportamento deteriore, e comunque una sciocchezza poco importante. Loro tornavano, lo sapeva benissimo, lievemente, poco alla volta, senza ingombrare, e lei lasciava che si affollassero attorno alla sua poltrona per la lettura, per poi riprendere di nuovo ad allontanarli da sé, come un piccolo gruppo di animaletti curiosi.
            Non si era sentita mai troppo vecchia, lei, che ancora andava a spasso con le sue amiche, sapeva adeguatamente truccarsi gli occhi, e spesso in giro riusciva a dar mostra di sé, con la sua personalità non da tutti e i suoi capelli curati, anche se quella solitudine che spesso provava certe volte indubbiamente la faceva soffrire. I libri la portavano via, ma lei voleva restare con i piedi ben piantati per terra, essere cosciente di tutto ciò che avveniva, informarsi, stare aggiornata sulla realtà ed i suoi cambiamenti continui. 
            La sua piccola casa certe volte le pareva perfetta per le sue esigenze: ogni angolo aveva uno scopo e da ogni parte lei si sentiva a proprio agio, come se tutto fosse disegnato per ogni sua piccola necessità. Ma più di ogni altro, era il posto dove teneva i piccoli vasi con le violette ciò che le dava una soddisfazione particolare. Aveva trovato il sistema per riprodurle, quelle piantine, partendo ogni volta da una semplice foglia, e ciascuna di loro, quando nasceva sopra a quel tavolo su cui le curava, accanto ad una finestra, mostrava, dopo aver messo le minute radici, una fioritura di colori sempre diversi. Non chiedevano molto, le sue violette, solo un poco di cure e di attenzioni, il resto lo facevano da sé, in bella mostra sopra la mensola, con delle fioriture meravigliose.
            Le guardava, le toccava, ed era come se loro sapessero che lei era lì, ad osservarle con attenzione, pronta con orgoglio a mostrarle ogni volta che qualcuno andava da lei a farle visita. Prima di uscire di casa passava ancora da loro, come ad assicurarsi che tutto fosse a posto, poi si fermava davanti al grande specchio del corridoio, e dava un ultimo sguardo al suo viso, ai suoi capelli, come a raccogliere con un gesto il meglio di sé, e affrontare ogni aspetto che fuori l’attendeva.
            Ma quel giorno non si era sistemata per uscire, non aveva guardato le sue piante, era rimasta seduta a leggere il libro, quel romanzo della sua gioventù, e quando si era alzata, forse in modo repentino, dalla sua poltrona, era andata, chissà come, a cadere come una sciocca, quasi senza rendersene conto. Il dolore fortissimo a una gamba le aveva reso evidente in un attimo la gravità di ogni cosa, e lei, impossibilitata a muoversi, era rimasta lì, semisvenuta, incapace di chiedere aiuto.
            Il silenzio della casa non le dava sollievo, i suoi pensieri adesso correvano veloci, si soffermavano su tutto ciò che avrebbe potuto portale un aiuto, ma restarsene ferma là a terra era qualcosa che non aveva mai preso in considerazione, e il telefono era lontano, proprio all’ingresso, sotto allo specchio. L’avrebbero trovata lì, priva di vita, pensò in un attimo, fra tre o quattro giorni, o anche di più, ma in fondo tutto questo era un aspetto che riusciva persino ad accettare.
Ma poi le erano venute a mente le sue violette: non poteva lasciarle, avevano bisogno di lei, sarebbero seccate senza la sua mano esperta: quell’esperienza che aveva maturato con loro non poteva averla nessuno come lei, ne era sicura. No, non poteva lasciarle, sarebbero rimaste lì ad appassire, giorno dopo giorno, ignorate da tutti, e questo non lo meritavano. Si fece coraggio, pensando queste povere cose, si trascinò alla meglio lungo quel pavimento, e alla fine raggiunse il telefono. Non mi importa niente di me stessa, aveva detto alla sua amica che fortunatamente abitava vicino, spiegandole tutto ciò che era successo, ma devo pensare a queste violette, sono anche loro che hanno bisogno di cure, hanno bisogno di me, ed io non posso permettere che quei fiori meravigliosi appassiscano.    
           

            Bruno Magnolfi

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