Ogni
giorno è un percorso mentale diverso. Si vaga dentro tracciati ordinari,
consapevoli però che qualcosa nella nostra coscienza cambia ogni volta, anche
se sappiamo che è inaccettabile. Si osserva tutto quanto in termini sempre
oggettivi, come ci siamo sempre sforzati di fare, si assaporano i passaggi di
luce da una fase a quell’altra immedesimandoci in tutto quello che accade, o
almeno cercando di interpretare i piccoli eventi, gli sguardi veloci di anonimi
personaggi, meravigliandoci ogni volta della nostra capacità di reazione nel
far fronte agli aspetti più negativi, perché spesso sono proprio questi
inciampi gli elementi che caratterizzano meglio i periodi. Infine, da qualche
parte dentro di noi, si assaporano senza possibilità di evitarli quegli
immancabili preliminari di angoscia, quel gusto amaro di incapacità ad
affrontare quello che spesso ci capita, ed è questo il pugno allo stomaco dopo
il quale, lo sappiamo, ancora ci possiamo rialzare, ma sempre ogni volta con maggiore
difficoltà.
In certi casi
si prova orrore della neutralità che regna attorno a noi dopo un colpo del
genere, e della capacità, da parte di tutti, di riassorbire ogni qualsiasi
screzio all’interno della normalità più ordinaria: inutile irritarsi in un modo
non adatto a ciò che è già stato previsto, serve solo a mostrarci diversi,
isolati, persone da sole che vagano senza neppure capire. Poi qualcosa,
impercettibile, chiude la fase, e la memoria si offusca.
Così pensavo,
in una serata di pioggia, sotto ad un piccolo ombrello, cercando almeno il
senso per tornarmene a casa. C’era il vuoto intorno ai lampioni bagnati che
illuminavano le pozzanghere d’acqua sui marciapiedi. Vedevo le persone lungo le
strade, ma non riuscivo a comprendere il filo che univa le cose, il senso del
fare, del procedere oltre, di andare avanti comunque. Forse, pensavo, serve
soltanto socchiudere gli occhi e percorrere la via più consueta, quella più
familiare, la strada che ci porta dove sappiamo, senza troppe domande.
Bruno
Magnolfi
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