Spesso
mi chiedevo come mai gli altri avessero sempre da guardarmi. Forse per il mio
vizio di ridere da solo, di sorridere a tutti, pensavo. Ma che c’era di male?
In fondo era un bel comportamento il mio, avrebbero dovuto impararlo anche loro.
Spesso mi guardavo attorno e scuotevo la testa: non riuscivo a comprendere
perché nessuno degli altri ridesse come facevo io. Eppure il mio comportamento
avrebbe dovuto incoraggiarli, spingerli a fare proprio come me. Invece niente.
Poi decisi che
non mi importava, che tutto andava bene anche così. Chiedevo una sigaretta e me
la davano. Certe volte qualcuno mi allungava anche degli spiccioli, e quelli mi
facevano comodo, li mettevo tutti nella stessa tasca e ogni tanto li facevo tintinnare.
Poi li portavo alla mamma e le dicevo ridendo che mi erano stati regalati. Mi
mettevo sempre a gironzolare attorno a una piazza, dove c’era il semaforo, le
macchine si fermavano, e gruppi corposi di persone attraversavano la strada.
Era sempre pieno di gente lì attorno. Io ridevo, chiedevo una sigaretta e
quelli me la davano senza problemi.
Poi un giorno
arrivò un tizio per regalarmi una bicicletta. “Così ti muovi un po’ da qua”, mi
disse. Una bicicletta da donna, un po’ rugginosa, subito mi piacque. Era bello
andare a giro con la mia bicicletta, anche se mi limitavo solo a spingerla.
Forse avrei dovuto imparare a sedermi sopra il sellino, a far girare i pedali,
ma mi sembrava difficile, e poi non mi importava. Però era bello avere una
bicicletta, mi dava importanza. Adesso qualcuno mi chiedeva dove andassi con
quella mia bicicletta, e un altro mi aveva detto di rispondere: “Al mare!”, ed
io rispondevo sempre in quel modo, e poi ridevo. Stavo quasi tutto il giorno
intorno alla piazza, ogni tanto mi mettevo su una panchina e appoggiavo la mia
bicicletta. Appena il sole spariva dietro a un palazzo, però, me ne tornavo
subito a casa. Lì c’era la mamma e la mia sorella che non mi chiedevano niente,
ma avevano sempre da brontolarmi perché ero sporco o perché continuavo a
ridere, anche con loro. La mattina dopo riprendevo i miei giri.
Attaccato al
manubrio della mia bicicletta adesso ci tenevo sempre qualche busta, e senza
chiedere nulla qualcuno aveva preso a regalarmi qualcosa: l’accendino per le
sigarette, una sciarpa, un borsello per metterci i miei spiccioli, e qualche
sigaretta di scorta. Era bello avere quella gente che si curava di me, ed io
ridevo, scuotevo la testa e ridevo.
Quando
rubarono la mia bicicletta da sotto casa della mia mamma non avevo per niente
voglia di ridere, perché senza che me ne fossi neanche accorto mi ci ero
affezionato davvero a quella mia bicicletta. Allora andai in piazza da solo,
senza neanche i sacchetti, e cercai di dire a tutti quello che mi era successo,
ma quelli adesso avevano imparato a sorridere, e si limitavano a dirmi: “Si,
si…”, e scappavano via. Qualcuno mi offrì una delle sue sigarette, ma a me non
importava neanche più, avrei voluto capissero che la mia bicicletta era stata
rubata, non c’era più niente da ridere e neanche avevo più voglia di fumare.
Così, dopo qualche
giorno, smisi di andare, come sempre avevo fatto, in quella solita piazza;
rimasi a casa, a far compagnia alla mamma che era ormai anziana e aveva bisogno
della mia compagnia. Restai a casa senza un motivo, per starmene seduto a non
fare niente, solo a ripensare per tutto il giorno a chi mai avesse potuto
rubare quella mia bicicletta. Poi mi ammalai, e smisi di pensare anche quello.
Bruno
Magnolfi
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