Mi
aveva impressionato vedere quelle scene in televisione e sui giornali. Quei
cani torturati, rinchiusi per anni in delle piccole gabbie, sacrificati per
motivazioni sciocche o marginali. Mi pareva impossibile che tutti o quasi
rimanessero così indifferenti ad uno scempio di quel genere. Certe volte mi sedevo
da solo a riflettere attorno a quelle immagini che avevo visto tante volte. Mi
sembrava così triste il mondo, perso dietro a sciocchezze e cattiverie senza
significato. Guardavo la gente e mi accorgevo che tutti erano così. Uscivo di casa,
facevo delle lunghe passeggiate senza pensare a niente, poi mi intristivo nella
mia solitudine che non interessava mai nessuno. Pensavo che tutto era uno
schifo, non trovavo altri termini per definire la realtà.
Certe volte
nel pomeriggio andavo lungo l’alveo di un piccolo fiume che scorreva vicino al
paese, dove c’erano dei larghi prati di erba verde. Passeggiavo, pensavo, senza
preoccupazioni. Ci andavo spesso, mi piacevano le mie passeggiate, mi pareva di
tornare a quando ero un ragazzo, quando avevo ancora degli amici, altri ragazzi
della mia stessa età che venivano volentieri insieme a me, non mi lasciavano da
solo, si divertivano a prendermi in giro, questo si, ma poi erano buoni. Certe
volte mi chiedevano qualcosa che non capivo, poi ridevano, e allora anch’io
ridevo, come loro. Così ero rimasto affezionato a quei posti, quei prati verdi,
e avevo sempre continuato ad andarci volentieri.
Poi un giorno,
mentre osservavo da solo l’acqua scorrere tra i sassi, mi arrivò vicino un
cane, forse un esemplare da caccia sfuggito a qualcuno di quelli che sparavano
alle anatre, pensai. Mi venne vicino scodinzolando, mi annusò, si fece
accarezzare. Io mi mossi lungo la mia strada, lui venne con me, come se fosse già
a conoscenza del posto dove eravamo diretti. Io continuavo a camminare e lui
dietro, senza problemi. Entrò in casa con me, nel mio piccolo appartamento,
annusò i mobili, poi si mise acciambellato da una parte, stanco, indifferente a
tutto. Io gli detti l’acqua, scesi a comprare una scatoletta di carne che
poteva andargli bene, poi stetti ad osservarlo mentre dormiva. Non potevo
assolutamente tenerlo con me, mi era impossibile. Spesso non riuscivo neppure a
badare alle mie poche cose, alla mia vita di tutti i giorni.
Tre volte alla
settimana veniva a casa mia l’assistente sociale, mi faceva delle domande,
riempiva dei moduli; spesso guardava dentro al frigorifero, poi si offriva di
venire assieme a me a fare la spesa, pagava lei il conto, era contenta quando
le assicuravo che avrei mangiato di più, che sarei stato attento a non rimanere
così magro. Guardavo il cane e pensavo. L’assistente sociale non sarebbe stata
contenta di trovarlo lì. Dovevo disfarmene prima che lei tornasse: io ero
affezionato a lei, non volevo procurarle un dispiacere.
Così tagliai
la gola al cane con il coltello più grande e affilato che avevo in casa, e lo
feci con un gesto deciso, che non
lasciasse dietro di sé incertezze. Il sangue si sparse sopra al pavimento, ma
io asciugavo tutto con della carta che bruciavo nella stufa. Lasciai il corpo
lì, sul pavimento, per diverse ore. Poi presi il medesimo coltello che avevo
usato prima e iniziai a fare a pezzi quel corpo di stupido cane che
probabilmente era scappato a qualche cacciatore, ma gli ossi erano duri, non
riuscivo a spezzarli, cosi presi una sega che tenevo per la legna , e con
quella riuscii a farne tanti pezzi. Misi tutto dentro a tanti sacchetti di
plastica che mi davano sempre al supermercato, e un po’ per volta li andai a
gettare dentro ai cassonetti dei rifiuti.
Avevo fatto
tutto per bene, ero soddisfatto, ma quella settimana l’assistente sociale non
venne, e non si fece vedere neanche il sostituto. Così iniziai ad essere
nervoso, forse qualcuno del vicinato si era chiesto dove fosse finito il cane,
pensavo. Ad ogni ora che passava mi
sentivo sempre più preoccupato, come se tutti quelli che mi conoscevano nel
condominio sapessero già tutto, del cane e anche del resto, ma lasciassero che
fosse l’assistente sociale a dirmi che il mio comportamento non andava bene,
che avevo sbagliato un’altra volta. Ero nervoso, non riuscivo a fare niente. Poi
arrivò, io ero pronto, in cucina avevo già preparato il coltello, quello grosso
e ben affilato, ma lei parlò subito di tutt’altre cose invece di chiedermi del
cane, così io mi dimenticai di tutto e risposi alle sue domande come sempre.
Poi andammo insieme
a fare la spesa al supermercato, ed io infilai nel nostro carrello anche qualche
scatoletta di carne per il cane. Lei mi chiese a chi doveva servire quella
roba, ed io ero sicuro che lei sapesse già tutto così feci una risata, ma poi
mi tornò a mente che al cane quella roba non poteva più servire, così mi misi
da una parte, silenzioso, senza rispondere. L’assistente sociale non disse
altro, mi riportò a casa come sempre, poi mi chiese delle altre spiegazioni.
Non dissi niente, guardavo il pavimento, proprio lì dov’era stato il cane morto,
e mi sentivo dispiaciuto, non so se l’assistente sociale se ne rendeva conto.
Poi lei se ne
andò, lasciandomi di nuovo da solo, e allora iniziai a sentirmi male, proprio
come quelli che torturavano gli animali, che li tenevano in delle gabbie
piccole. Mi sentivo uno di loro, uno che non si fa assolutamente degli
scrupoli, e all’improvviso avevo chiaro tutto quanto, ora capivo quello che
prima mi sembrava assurdo: era la solitudine che portava ad essere cattivi, a
fare degli errori, era così: avrei dovuto senz’altro dirglielo all’assistente
sociale.
Bruno
Magnolfi
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