Era partito da
solo, con quella macchina vecchia, scarburata e fetente. Contava di arrivare
alla frontiera italiana a metà della notte, e se aveva fortuna nessuno lo
avrebbe fermato, nessuno gli avrebbe chiesto di aprire quel bagagliaio
maledetto. Guidava ormai da cinque ore filate, e in testa non aveva più niente,
tutti i pensieri se n’erano andati via poco per volta dal tubo di scappamento
insieme a quel fumo. I trenta cuccioli si erano lamentati per più di due ore all’inizio,
quando era ripartito dalla casa di campagna miserabile piena di latrati e di
merda da tutte le parti, poi il freddo e il ronzio del motore li aveva convinti
a starsene giù, rannicchiati, e aspettare il momento in cui fossero arrivati.
Gli dispiaceva,
a Julius, ma non poteva fermarsi, non poteva aprire quel cofano, neanche per
dar loro da bere: non poteva rischiare che qualcuno li vedesse, che si
facessero sentire o che qualcuno di loro scappasse da dentro la macchina. Alle
prime luci dell’alba sarebbe stato a Milano, aveva il numero di telefono del
contatto nella rubrica del suo cellulare, tutto si sarebbe concluso in fretta e
senza problemi. Sapeva già che i tre o quattro cuccioli più deboli sarebbero
morti, ma la selezione naturale avrebbe rinforzato la razza, così avevano detto
quelli che li avevano messi nel suo bagagliaio.
Un lavoro da
stronzi, quello di portare clandestinamente i cuccioli in Italia, lo sapeva
anche lui, ma almeno la maggior parte di loro sarebbero andati a star bene,
accuditi da qualche bambino ricco, con la villa, il giardino ed il resto. E poi
sempre meglio che portare la droga, o cose del genere. Così pensava Julius, e
intanto crollava di sonno, cercando di stare il più possibile dentro alla
carreggiata con quella macchina vecchia, un pezzo di ruggine. Aveva aperto un
po’ i finestrini perché il puzzo dei cani arrivava fin lì davanti, e poi l’aria
fresca andava bene, lo faceva correre meglio, lo svegliava.
Alla frontiera
c’era un velo di nebbia, il poliziotto lo aveva guardato mentre lui lentamente
passava con i documenti già pronti, ma non gli aveva fatto alcun cenno, la
strada era libera, tutto andava come doveva. Altre due ore, pensava Julius, forse
tre, poi si sarebbe concesso una bella dormita con i suoi tremila euro sotto al
cuscino, e poi via, da sua moglie al settimo mese, con la pancia già grossa, a
cercare di costruire un futuro. Forse avrebbe fatto un altro viaggio o anche
due così, con i cani, poi basta, doveva cercare un cantiere fuori mano, dove
nessuno veniva a chiedere niente, e farsi dare un lavoro da operaio, da
manovale, tutto al nero, perché in altra maniera nessuno lo avrebbe mai preso,
ma lui era giovane, gli andava bene anche così. Metter su una famiglia non era
facile, si doveva accettare di tutto.
Poi la nebbia
era andata diradandosi, e in quel tratto in discesa lui aveva pigiato di più sul
pedale, forse pensando a quei cuccioli, al loro bisogno di bere un po’ d’acqua,
di smuoversi velocemente dagli scatoloni dov’erano stati rinchiusi. La macchina
aveva iniziato a sbandare all’improvviso, forse su un pezzo di ghiaccio, lui
aveva cercato di richiamarla con un colpo di sterzo, ma tutto era peggiorato di
colpo, e l’albero era uscito dal buio per andargli proprio davanti, a
fracassarsi sul muso. L’ultimo pensiero di Julius era stato per quei cuccioli,
quei piccoli cani rinchiusi tra quelle lamiere, destinati ai ricchi italiani,
nati per un futuro migliore: forse due o tre si sarebbero ancora salvati, ne
era quasi sicuro, qualcuno fra non molto li avrebbe trovati, avrebbe dato loro
da bere, forse avrebbe avuto pietà di quel loro tentativo di vita. Cosa
importava adesso morire così, come uno stronzo qualsiasi, senza futuro, uno che
non aveva saputo neanche guidare; ma i cuccioli no, loro non c’entravano niente,
avrebbero dovuto salvarsi per forza. Questo l’ultimo pensiero di Julius; poi
più nulla.
Bruno Magnolfi
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