martedì 16 marzo 2010

Scuse tardive.

            

            Da circa cinque anni avevo smesso completamente di parlare, e siccome non prestavo mai attenzione a niente e a nessuno, alcune persone, compresi i miei familiari, in capo a poco tempo immaginarono che io non fossi neppure capace di ascoltare. Così tutti si lasciavano andare in mia presenza a considerazioni sparse su di me e sulla mia malattia, commenti ai quali io peraltro mi fingevo assolutamente indifferente pur divertendomi moltissimo ad ascoltare quello che veniva detto, certe volte in una maniera che nessuno probabilmente sarebbe mai riuscito a immaginare. Mi era stata concessa l’incapacità di intendere e di volere e mi veniva passato un sussidio per il mio mantenimento.
Si dicevano molte cose su di me, che avessi un’intelligenza sottile e particolare tutta tesa verso cose sconosciute ai più, concentrata sui meccanismi interni della personalità che escludeva qualsiasi interesse per le cose di ogni giorno; e ancora che si sarebbero potute studiare meglio le mie particolarità, forse per comprendere il funzionamento del cervello, e cose di quel genere. Naturalmente non avevano capito quasi niente. Il mio comportamento, quell’isolarmi da tutti, era solo causato dagli argomenti triti che venivano portati avanti dalle persone e che sinceramente non riuscivo a sopportare: la sterilità delle parole scambiate con il gusto di perdere del tempo, la tristezza data dal bisogno di confrontare i modi di pensare, la ridicolezza di parlare ognuno di sé, del proprio vissuto, delle esperienze peraltro simili a quelle di ogni altro. Tutto ciò mi dava la nausea, molto meglio evitare questi scambi.
Però ero giudicato buono: facevano quasi a gara per portarmi in giro, a farmi vedere il mondo, la gente, la vita com’era; non mi lasciavano mai uscire da solo, ma più per prevenzione che per necessità. Io mi lasciavo guidare da tutti, non opponevo resistenza, accettavo qualsiasi cosa mi venisse offerta, seguivo tutto ciò che mi veniva indicato. Poi smisi di mangiare. Non che volessi morire di fame, per me era solo un gioco, la voglia di capire fino a che punto potevo spingermi. Tutti si preoccuparono all’inverosimile, qualcuno fondò nuove teorie sui miei nuovi atteggiamenti, altri pensarono che ero solo un peso sociale e un problema per chiunque, infine fu trovata la soluzione. Fui portato in una clinica e sedato, alimentato con un sondino e quasi costretto all’immobilità.
Poi, una mattina, rimasto nella camera solo con gli altri ammalati che dormivano, decisi che bastava. Mi alzai dal letto, indossai i vestiti che erano rimasti tutto il tempo chiusi dentro all’armadietto e mi presentai nella sala medici. Dissi in un fiato che stavo bene, i miei parametri erano normali, avevo controllato la mia cartella clinica e tutto era nella norma, se avessero voluto tenermi ancora rinchiuso là dentro e sedato, avrei fatto scattare una causa legale nei loro confronti. Tutti rimasero senza parole, infine andai nel corridoio e telefonai ad un avvocato amico di famiglia di cui avevo sempre conservato il numero, lo convinsi a venirmi a prendere in clinica e nessuno si oppose al mio comportamento.
Quando scesi le scale e raggiunsi il piazzale antistante la clinica, prima di attraversare la strada, mi sentivo persino troppo eccitato per guardarmi intorno: il mio avvocato mi stava osservando dalla sua auto già in moto ed io ero sicuro di trovarmi al centro di ogni attenzione. Così quando spiccai una corsetta e l’autobus mi investì in pieno, per me fu una totale sorpresa: avevo pensato fino a quel punto di poter controllare tutto e prendere in giro chiunque, quella variante per me adesso era quasi assurda. Non morii subito, riuscii ancora a vedere i miei familiari e alcune persone che mi conoscevano: chiesi perdono a  tutti, naturalmente, ma non sono sicuro che in quel momento tutti avessero voglia di scusarmi.


            Bruno Magnolfi

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