Da
circa cinque anni avevo smesso completamente di parlare, e siccome non prestavo
mai attenzione a niente e a nessuno, alcune persone, compresi i miei familiari,
in capo a poco tempo immaginarono che io non fossi neppure capace di ascoltare.
Così tutti si lasciavano andare in mia presenza a considerazioni sparse su di
me e sulla mia malattia, commenti ai quali io peraltro mi fingevo assolutamente
indifferente pur divertendomi moltissimo ad ascoltare quello che veniva detto,
certe volte in una maniera che nessuno probabilmente sarebbe mai riuscito a
immaginare. Mi era stata concessa l’incapacità di intendere e di volere e mi
veniva passato un sussidio per il mio mantenimento.
Si dicevano
molte cose su di me, che avessi un’intelligenza sottile e particolare tutta
tesa verso cose sconosciute ai più, concentrata sui meccanismi interni della
personalità che escludeva qualsiasi interesse per le cose di ogni giorno; e
ancora che si sarebbero potute studiare meglio le mie particolarità, forse per
comprendere il funzionamento del cervello, e cose di quel genere. Naturalmente
non avevano capito quasi niente. Il mio comportamento, quell’isolarmi da tutti,
era solo causato dagli argomenti triti che venivano portati avanti dalle
persone e che sinceramente non riuscivo a sopportare: la sterilità delle parole
scambiate con il gusto di perdere del tempo, la tristezza data dal bisogno di
confrontare i modi di pensare, la ridicolezza di parlare ognuno di sé, del
proprio vissuto, delle esperienze peraltro simili a quelle di ogni altro. Tutto
ciò mi dava la nausea, molto meglio evitare questi scambi.
Però ero
giudicato buono: facevano quasi a gara per portarmi in giro, a farmi vedere il
mondo, la gente, la vita com’era; non mi lasciavano mai uscire da solo, ma più
per prevenzione che per necessità. Io mi lasciavo guidare da tutti, non
opponevo resistenza, accettavo qualsiasi cosa mi venisse offerta, seguivo tutto
ciò che mi veniva indicato. Poi smisi di mangiare. Non che volessi morire di
fame, per me era solo un gioco, la voglia di capire fino a che punto potevo
spingermi. Tutti si preoccuparono all’inverosimile, qualcuno fondò nuove teorie
sui miei nuovi atteggiamenti, altri pensarono che ero solo un peso sociale e un
problema per chiunque, infine fu trovata la soluzione. Fui portato in una
clinica e sedato, alimentato con un sondino e quasi costretto all’immobilità.
Poi, una
mattina, rimasto nella camera solo con gli altri ammalati che dormivano, decisi
che bastava. Mi alzai dal letto, indossai i vestiti che erano rimasti tutto il
tempo chiusi dentro all’armadietto e mi presentai nella sala medici. Dissi in
un fiato che stavo bene, i miei parametri erano normali, avevo controllato la
mia cartella clinica e tutto era nella norma, se avessero voluto tenermi ancora
rinchiuso là dentro e sedato, avrei fatto scattare una causa legale nei loro
confronti. Tutti rimasero senza parole, infine andai nel corridoio e telefonai
ad un avvocato amico di famiglia di cui avevo sempre conservato il numero, lo
convinsi a venirmi a prendere in clinica e nessuno si oppose al mio
comportamento.
Quando scesi
le scale e raggiunsi il piazzale antistante la clinica, prima di attraversare
la strada, mi sentivo persino troppo eccitato per guardarmi intorno: il mio
avvocato mi stava osservando dalla sua auto già in moto ed io ero sicuro di
trovarmi al centro di ogni attenzione. Così quando spiccai una corsetta e
l’autobus mi investì in pieno, per me fu una totale sorpresa: avevo pensato
fino a quel punto di poter controllare tutto e prendere in giro chiunque,
quella variante per me adesso era quasi assurda. Non morii subito, riuscii
ancora a vedere i miei familiari e alcune persone che mi conoscevano: chiesi
perdono a tutti, naturalmente, ma non
sono sicuro che in quel momento tutti avessero voglia di scusarmi.
Bruno
Magnolfi
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