Lei
aveva indossato una vestaglia da camera, si era seduta al tavolo, aveva aperto
il suo piccolo diario. Doveva spingersi in avanti, lo sapeva: avrebbe dovuto
riordinare la casa, farsi una doccia, vestirsi per uscire, ma era rimasto in
aria il passaggio quasi impalpabile di lui, forse il suo odore, la sua ombra,
quel suo esser stato lì in silenzio fino a poco prima, e questo bastava a
paralizzale dolcemente qualsiasi movimento. Aveva scritto la data sopra al
foglio bianco, poi aveva iniziato il suo pensiero con: “Dovrei…”,
interrompendosi subito. A che serviva annotare cosa sarebbe stato giusto fare,
pensava, la realtà era diversa. Ogni sua intenzione veniva ogni volta
vanificata, lo sapeva, non poteva farci niente.
Sentiva
giungere un rumore leggero dalla strada, qualcosa che la riportava vagamente
alla realtà, ed era un oscillare appena percettibile, quasi un leggero moto
altalenante, tra la vita della strada e quel suo starsene lì, immersa in
riflessioni dolci, rese ovattate e morbide dalla cipria che ricopriva ogni
pensiero. Poi scrisse: “Farmi desiderare…”, senza essere convinta di quelle
semplici parole. Le venne da sorridere: come sarebbe mai stato possibile tenere
un comportamento freddo, stabilito a priori, un percorso meditato volto al
raggiungimento di un fine certo? Cosa poteva mai escogitare per cambiare anche
solo qualcosa in quella realtà incondizionata? “Niente…”, scrisse; “non è
possibile”.
Poi si mosse,
andò nell’altra stanza, alzò il telefono: aveva voglia di sentire la sua voce,
di sapere che era vero, che esisteva, che sapeva dirle cose dolci, belle,
sfiorarla delicatamente con quelle sue parole, ma adesso era solo egoismo il
suo, capriccio da bambina, non doveva cedere a comportamenti così stupidi. Forse
aveva voglia di piangere, ma non sapeva più se era per se stessa o se era per
lui, per quanto le mancava. In ogni caso doveva sforzarsi di essere più
razionale, definire qualcosa dentro di sé e poi tenere fede a quella scelta.
Giunse di
nuovo il rumore dalla strada, e la luce obliqua del pomeriggio filtrava dalle
tende indicando qualcosa a terra, sopra al pavimento. Continuava a sentirsi
imbambolata, nonostante i suoi deboli sforzi, e adesso le pareva che la testa
le girasse, come se una piccola ubriacatura fosse scesa dentro di lei. Era
rimasta la bottiglia di vino rosso sopra al tavolo, e i due calici da cui
avevano bevuto. Versò ancora qualche goccia, giusto per sentire quel profumo,
poi andò decisa verso la finestra e l’aprì, con un gesto deciso. L’aria era
immobile, ma i rumori della strada entravano nell’appartamento come a volergli
dare vita. Lei spinse il suo sguardo sopra i tetti vicini, fino ad un campanile
immerso dentro alla città. Poi tornò al tavolo, prese di nuovo la penna che
aveva abbandonato sopra al foglio, e scrisse in fretta: “Sono felice…”; poi
chiuse il diario ed iniziò ad occuparsi di altre cose.
Bruno
Magnolfi
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