Non ho
detto niente quando mi hanno chiesto qualcosa. Sono rimasto in silenzio, non mi
sono mai fidato di chi fa troppe domande. Sono vecchio, questo è vero, ma ciò
non vuol dire che sia rincretinito: ho capito benissimo cosa volevano sapere,
forse bastava annuire qualcosa, far finta di stare al disopra di certi
meccanismi. Il resto, tutto ciò che mancava dei miei accenni, delle parole che
avrebbero voluto sentir dire, ce lo avrebbero messo loro, con grande piacere.
Ma io immaginavo già tutto questo e sono rimasto indietro di un passo: ho detto
il mio nome, a testa alta, ho detto ciò che sapevo, cose che anche gli altri
sapevano, poi ho detto basta, non so niente di altro e non dirò mai qui
spontaneamente quello che penso delle vostre congetture, inutile insistere.
Non
l’hanno presa benissimo, avrebbero probabilmente avuto bisogno di qualcuno tra
i loro avversari che facesse retromarcia sulle convinzioni più note, ma non ero
io il loro uomo, e così hanno parlato a voce bassa tra loro, parevano piuttosto
nervosi, poi mi hanno lasciato.
Difficile
capire il meccanismo a cui stanno dando risposte: si tratta probabilmente di
montare informazioni inventate, ma che siano così credibili da apparire
assolutamente come vere. Ma per diventare così verosimili qualcuno deve star lì
a suffragarle, qualcuno con un passato il più possibile cristallino, tanto da
essere creduto per forza, senza alcun dubbio, ed io sono sicuro che lo
troveranno, o forse pagheranno qualcuno affinché lo incarni al meglio
possibile.
Che
mondo di plastica è mai questo, ho pensato, tutto è sempre più finto, le
informazioni sono plasmate in modo che servano a chi paga di più, tutti lo
sanno, eppure c’è ancora chi, per stanchezza, per semplicità, per smania di
qualcosa di diverso, è disposto a credere a tutto, a dar credito in modo
completo a quello che viene raccontato ogni giorno.
Sono
uscito da quegli uffici pieni di luci elettriche e di vetri oscurati che già mi
sembrava di aver ottenuto una qualche vittoria: ho preso l’autobus, sono
tornato a casa mia, mi pareva di stare bene, a posto con la mia coscienza. Poi
con calma ho ripensato a quelle domande: non erano mai dirette, non si trattava
di rispondere si, oppure no. Ho iniziato ad avere dei dubbi, poi ho acceso la
televisione. Quando è iniziata la mia intervista mi sono subito reso conto che
avevano cambiato domande: le mie risposte apparivano ambigue, e le parti che
non potevano essere utilizzate le avevano prontamente tagliate. La mia risata
ironica sotto alle telecamere era diventata un moto di apprezzamento delle loro
posizioni, le mie parole erano state spezzettate, ero dei loro, non ci poteva
quasi essere dubbio.
Ho
spento il televisore, ho ripensato alla guerra, al fascismo, al mio essere partigiano.
Tutto si è fatto sporco, ho pensato, inutile prendersela: forse i miei pensieri
e i ricordi sono solo miei. Inutile pensare di condividerli con chi vuole
soltanto cavalcarli; non dovevo proprio accettare un’intervista del genere. Ho
sbagliato, bisognerebbe gridarlo il mio sbaglio, ma non ho ormai più la voce
che me lo permetta.
Bruno
Magnolfi
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