Il
negozio di stoffe esisteva da almeno trent’anni, e vendeva tendaggi, lenzuola,
anche qualche tappeto. Ci lavorava una commessa, ma alla cassa e dietro al
grande banco di legno in tutti quegli anni c’era sempre stata la proprietaria,
una signora ormai anziana dall’espressione bonaria, con l’inseparabile metro di
stoffa girato sul collo. La signorina Francesca era la figlia, l’avevo sentita
una volta chiamare proprio così dalla commessa, e aveva iniziato ad aiutare la
mamma almeno per tre o quattro pomeriggi la settimana, senza grande impegno, a
dire il vero e per quanto potevo capire, limitandosi a rimettere a posto le
pezze ogni tanto e a servire qualche cliente. Aveva un’espressione triste, quella
ragazza leggermente invecchiata; portava generalmente camicette bianchissime e
i capelli annodati dietro alla nuca, quasi da assumere l’aria del personaggio
di un’altra epoca, con la sua corporatura magrissima, quasi sofferente, lo
sguardo da timida, la carnagione olivastra.
Io
abitavo al numero sedici di quella strada, nella casa che mi avevano lasciato i
miei genitori, appena dieci metri dopo il negozio di stoffe, e ogni volta che
passavo davanti a quelle vetrine davo un’occhiata all’interno. Non ci avevo mai
fatto caso prima di allora, ma era stato quando avevo notato la signorina
Francesca per la prima volta che qualcosa di lei mi aveva incuriosito. Non ero
mai entrato all’interno di quell’esercizio, però con il tempo, a furia di
osservare i particolari dal marciapiede, era come se conoscessi già tutto di
quel posto, come se fossi quasi affezionato a quelle persone che lavoravano là
dentro.
Era
stata una sera qualsiasi, mentre tornavo a casa come sempre, che era successo
di essermi quasi scontrato con la signorina Francesca mentre stava uscendo da
dentro al negozio. Scusi, ci eravamo detti ambedue quasi contemporaneamente, e
lei lo aveva fatto con una voce che non avrei mai immaginato, non avendola mai
sentita parlare prima di allora, dolce e profonda allo stesso tempo, e con una
riservatezza nei gesti e nello sguardo che mi aveva attratto ancora di più. Mi
ero sentito folgorato, ed avevo iniziato a passare di fronte a quelle vetrine
tantissime volte nelle sere seguenti, mai soffermandomi ma rallentando la mia
camminata nello spazio di quei pochi metri, con l’intento di rivederla, di
darle un saluto, di riuscire a strapparle un sorriso, qualche parola
convenevole. Invece non c’era, o diversamente appariva indaffarata dietro a
qualche cliente, ed io non avevo trovato più alcun motivo per poterle parlare.
Più
la osservavo, la signorina Francesca, durante quei pochi secondi in cui passavo
davanti al negozio, più mi sembrava una persona dai modi affascinanti, con
quella maniera di tenere lo sguardo abbassato, i capelli raccolti, le sue
camicette sempre bianchissime. Potevamo avere la stessa età, e la mia
solitudine mi pareva più sopportabile da quando sapevo che lei era là, che mi
era vicina in qualche maniera, che forse soffriva del mio medesimo male. Poi decisi
che dovevo parlarle, perché non resistevo, non potevo più attendere.
Una
sera qualsiasi entrai dentro al negozio, chiesi alla commessa di una tenda da
mettere alla finestra della mia camera, poi, mentre quella mi stava mostrando
qualcosa, mi voltai verso la signorina Francesca, nello stesso momento in cui
anche lei si era girata verso di me. Buonasera, le dissi, e ci sorridemmo, come
per un’intesa, così almeno mi parve. La commessa mi fece vedere parecchi colori
e altrettante finiture, ma io mi mostrai estremamente indeciso, proprio per
lasciare qualcosa in sospeso e tenermi la possibilità di tornare in negozio in
un altro giorno. Dissi a voce alta che sarei ripassato, avrei preso meglio le
misure che servivano, poi, al momento di uscire, mi accostai appena verso la
signorina Francesca, giusto per dirle: allora… arrivederci, con tutto il
sentimento sincero che riuscivo a mettere in una sola parola. Lei mi guardò, mi
sorrise, poi abbassò gli occhi.
Bruno
Magnolfi
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