Sto qua, seduto, e non c’è
nessuno che mi chieda di fare qualcosa, di pensare, di muovermi o di
raggiungere un luogo diverso da questo. Perciò resto qua, seduto, e osservo con
attenzione le venature del legno sul piano del tavolo. Mi sono sempre perso con
facilità in cose del genere, in piccoli dettagli senza apparente significato,
ho sempre fatto così sin da quando ero piccolo, non trovo assolutamente motivo
per cui dovrei comportarmi in un modo diverso. Il mio dito scorre il profilo
liscio del tavolo, i miei occhi lo seguono, fino allo spigolo.
Poi
si apre una finestra dentro di me, qualcosa pare volteggiare nell’aria, nella
penombra della mia stanza, da qualche parte sui muri o attorno alla lampada
spenta. Mi guardo attorno, cerco di immaginare quale piccolo elemento possa
sfuggire al controllo, poi lascio perdere, riprendo il mio studio profondo
delle venature del tavolo. Può essere stato un rumore, penso, oppure il ricordo
di qualcosa che adesso non riesco neppure ad identificare: certe volte i miei
sogni o i miei pensieri sono forti, urlano da soli nella mia testa, mi tengono
inchiodato per giorni a guardare sempre la medesima immagine, poi sfumano,
dissolvendosi in niente.
Le
venature del legno corrono attorno ad un nodo, conosco perfettamente il loro
disegno, la loro maniera per dar spazio alle fibre. Il nodo ha una forma ovale
più chiara, è l’embrione di qualcosa ma a me non interessa particolarmente, mi
piace soltanto che le venature si allarghino, per lasciargli lo spazio che
serve. E’ un’immagine unica, penso, un disegno fatto una volta per tutte,
irripetibile, ed è qui, sotto alle mie dita che scorrono la sua superficie.
La
mia è un’attesa, penso, ma non so cosa attendermi, se non l’ora dei pasti o
quella per stendermi a letto. Qualcosa emerge di nuovo dal buio, volteggia
nell’aria come prima, ma adesso si posa sopra di me, sulla mia mano aperta
sopra la superficie del tavolo. Resto immobile, riconosco una variabile al
flusso di tutte le cose che potrebbe solo in un attimo scomporre l’equilibrio
che cerco. Appoggio la faccia sul tavolo, gli occhi ben aperti ad osservare la
mano, poi attendo con pazienza infinita che il momento si compia.
Infine
chiudo gli occhi, le venature del legno si muovono, le sento sotto la mano,
qualcosa scorre lentamente lungo la superficie del tavolo. Allora torno ad
assumere la mia solita posizione, seduto, senza niente che mi suggerisca di
variare qualcosa. A volte mi chiedono se i miei pomeriggi non appaiono lunghi
trascorsi così, ma io non rispondo: inutile gridare da dietro ad una finestra
ferrata come spesso fanno gli altri. Io resto qui, lo studio della superficie
del tavolo assorbe moltissimo del tempo che ho, ma non me ne lamento: la vita
non sarà infinita, penso, devo proseguire il lavoro, devo trovarne la sua
conclusione.
Bruno
Magnolfi
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