venerdì 17 settembre 2010

Scena n. 1. Il principio del raccontare.

            

            Un tavolo, una sedia, uno sfondo grigio; una lampada dall’alto illumina lo spazio. Un uomo entra timidamente nel fascio di luce. Si rivolge al pubblico, ma solo dopo qualche momento: vedete, dice, qua non c’è niente, niente che io possa fare o dire che non sia già risaputo, scontato, elemento ordinario. Qualsiasi cosa è inutile. Però potrei raccontare una storia, una piccola storia alla quale tengo molto, che ho pensato da lungo tempo, che ho tenuto in serbo, solo per voi, proprio per raccontare qualcosa stasera.
            Ci siamo dannati tutti per lungo tempo cercando gli argomenti che racchiudessero altri argomenti, rovistando tra le parole maggiori che fossero quelle più importanti di tutte le altre; abbiamo pensato, e di ogni pensiero abbiamo studiato la matrice, abbiamo immaginato la riflessione più alta, quella principale di tutte. Inutile e ridicolo appare adesso anche solo dirlo: ci siamo persi dietro questa nostra ricerca, ci siamo confusi, siamo rimasti imprigionati durante il percorso, e non abbiamo saputo neanche più come uscire da quel labirinto.
            Per questo, ecco, una piccola storia, un breve racconto è senz’altro ciò che può dare il senso alle cose, proprio perché non ha nessuna pretesa, è solo una piccola cosa in mezzo ad un mare di altre cose che ogni giorno viviamo, ascoltiamo, percepiamo nell’aria come costituenti leggeri e necessari del nostro inseguire le tracce; si, le tracce, le orme di qualcosa a cui cerchiamo di assomigliare e che è sempre più avanti di noi: ne seguiamo la pista, la scia, il richiamo fortissimo e indecifrabile che ci lascia affaticati mentre ci affanniamo nel corrergli dietro, eppure sappiamo in partenza che saremo perdenti, ma anche così siamo ben consapevoli che non potremo mai scegliere altro da perseguire.
            Le storie sono solo costruzioni meccaniche messe assieme ora per stupire, ora per insegnare qualcosa, ora per farci sognare. E’ giusto rivoltarsi a questo automatismo scontato, non c’è nessun interesse nello starsene a bere tutto quello che ci viene rifilato. Però, non c’è vergogna, siamo uomini e donne, possiamo sbagliare, continuamente sbagliare ed accorgerci ogni volta di qualsiasi errore in cui siamo caduti, eppure continuare a sbagliare, proprio come poveri dementi fissati.
            Io, questa sera, non so neanche più di che cosa volevo parlarvi; c’è ancora qui questo tavolo, quest’umile sedia, non so neppure chi abbia scelto questo arredamento così minimo, non so neanche cosa farci con un tavolo e con una sedia. Non lo so, però ci penso, ci sto pensando, forse qualcosa mi viene alla mente: posso sedermi sopra la sedia, appoggiare i gomiti sul tavolo e in questa posizione cercare di scrivere; si, scrivere, inventare la storia da raccontare la prossima volta, se mai ci sarà la prossima volta. Posso studiare il racconto da leggere quando sarà il momento più adatto, ecco, perché lo so, lo so bene, sarà quel racconto, pur piccolo, breve, insignificante che sia, quello di stasera oppure uno diverso, che saprà ancora convincermi che si può essere vivi, e mi lascerà utilizzare tutte le parole possibili per dar ali alla mia fantasia.


            Bruno Magnolfi

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