Il
letto, in quella cameretta a due posti in fondo al corridoio della clinica, era
comodo. Dalle sue sponde pareva che tutto cadesse a terra verticalmente,
lenzuola, coperte, qualsiasi oggetto appoggiato là sopra, ma tutto l’insieme
sembrava ancorato a dei robustissimi tiranti costituiti da cavi d’acciaio che
ruotavano lentamente su delle pulegge, a seconda delle tante posizioni che gli
infermieri volevano far assumere al malato di turno. L’altro letto momentaneamente
era vuoto, però nella sua perfezione estetica (neanche l’ombra di una grinza
formava quella coperta), pareva così in solerte attesa di un ospite da riuscire
a parlare come tra sé di tutti coloro che erano stati sdraiati là sopra prima
di allora.
L’uomo avvertiva alcuni leggeri
dolori non circoscritti, e il suo medico gli aveva consigliato una serie di
esami specifici da effettuarsi in pochi giorni di ricovero ospedaliero. Così
stava là, fermo e coricato, in un’attesa contornata da una finestra che dava
sul niente del cielo, e delle pareti bianchissime che parevano il nulla in
forma di muro. I primi stupidi pensieri sulla famiglia e il lavoro l’uomo li
aveva sveltamente allontanati da sé, lasciando navigare la sua fantasia sulle
cose che negli ultimi anni gli erano capitate.
Gli
era tornata in mente, chissà per quale motivo, la faccia di un uomo più giovane
di lui, che aveva conosciuto un paio d’anni prima in occasione di una piccola
festa che sua moglie aveva organizzato nel giorno del proprio compleanno, un
ricevimento all’aperto per un gruppo di non più di trenta persone. Naturalmente
lui odiava quel tipo di cose, ma per far contenta sua moglie si era dato da
fare per sistemare al meglio le cose. Gli invitati erano quasi tutti amici di
vecchia data, meno una coppia, un uomo e una donna, di cui lui si era
presentato come il nuovo collega di lavoro della sua moglie. Non ricordava
altro adesso, se non quell’espressione strana, particolare, quel modo di
sorridere quasi come per fare una smorfia.
Avevano
parlato del più e del meno in quell’occasione, e quel tipo aveva detto più
volte di chiamarsi Fernando, senza aggiungere altro di sé. Poi, dopo quella
giornata era sparito, sua moglie non lo aveva neanche più rammentato, e in
seguito, quando lui aveva chiesto qualcosa di quei suoi colleghi, lei aveva
chiarito che Fernando era stato trasferito ad un ufficio diverso, e
praticamente lei non lo aveva più visto da allora. Così era finito nel
dimenticatoio come sempre succede con le persone che non capita più di poter
frequentare, ma adesso, senza un motivo apparente, ritornava quella faccia in
mezzo ai ricordi, quella buffa maniera di sorridere, quasi una smorfia, come a
chiedere di venire rammentata.
L’uomo
aveva chiuso gli occhi cercando di ricordare qualche ulteriore particolare, e
aveva immaginato che nel posto lì accanto fosse arrivato proprio Fernando ad
occupare quel letto e a parlare di sé, di quello che non aveva detto quel
giorno. Si divertiva ad inseguire quella sua fantasia, così immaginava un tipo
divertente assunto chissà come tra quei meandri della pubblica amministrazione,
sballottato da una parte a quell’altra dai capoufficio privi di qualsiasi
sensibilità e capaci solo di mostrare doti di polso e di durezza nei confronti
dei loro subalterni.
Fantasticava
a lungo tra sé, immaginava tutte le più diverse possibilità di un uomo con la
faccia che sembrava una smorfia, e perso dietro a quelle immagini leggere e
quasi divertenti prese sonno, lasciandosi cullare forse dalla posizione
perfetta del suo corpo coricato nel letto. Fu soltanto in fondo a quella
mattina costituita da uno strano tempo sospeso che l’uomo, leggermente
infastidito da piccoli rumori insignificanti nella stanza, ad un tratto si
risvegliò, annusò l’aria, e girato lo sguardo verso l’altro letto della sua
cameretta, si accorse che in quel lasso di tempo quel luogo perfetto ed intatto
era stato occupato. Allora incuriosito guardò meglio, pensando subito di
inviare un saluto all’altro ammalato, tanto per trovare un’intesa e una solidarietà
necessarie in un luogo del genere, ma in quell’attimo rimase senza parole: era
Fernando che occupava quel letto di fianco, proprio lui che adesso lo stava
guardando con quel suo sorriso strano e indecifrabile, quella sua
caratteristica smorfia, e mostrava di averlo senz’altro riconosciuto, anzi, lo
salutava, e forse era pronto a proseguire il racconto della sua vita, proprio
da lì, da dove le cose erano state interrotte.
Bruno
Magnolfi
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