venerdì 7 maggio 2010

La calma artificiale.



L’uomo camminava per strada insieme a tutti i pensieri che gli giravano nella testa, ed i suoi passi cercavano di scansare i piccoli accumuli d’acqua che si erano formati sui marciapiedi, dopo la pioggia insistente di quel pomeriggio. In giro si vedevano poche persone, la maggior parte dei negozi aveva già chiuso, le strade lucide portavano via le ultime auto. L’uomo teneva le mani sprofondate dentro alle tasche, il cappello antiquato calato sugli occhi, lo sguardo immobile, qualche metro davanti alle scarpe. La sua depressione negli ultimi tempi pareva non aver progredito, quella passeggiata che affrontava ogni giorno riusciva a fargli distendere i nervi, a renderlo tranquillo per quasi tutta la notte.
In fondo alla strada, oltre l’angolo, qualcuno aveva fatto un cenno con modi furtivi. L’uomo si era avvicinato proseguendo comunque il suo itinerario, e una vecchia, mezza nascosta dentro un portone, gli aveva chiesto qualcosa di incomprensibile. L’uomo immaginò che stesse chiedendo dei soldi, così soffermandosi appena un momento tirò fuori dalla tasca alcune monete, ma la vecchia con un gesto gli fece capire che non era quello che le interessava. Lo invitò a seguirla dentro al portone, gli indicò con un dito la scala di pietra che portava fino a quel primo piano, dove la porta di un appartamento era socchiusa. L’uomo seguiva quei gesti conservando, insieme ad una certa curiosità, la voglia profonda di tornarsene alla sua passeggiata ed ai suoi pensieri, ma la vecchia pareva dovergli mostrare qualcosa di importante, qualcosa che teneva lì, in quella casa, e che pareva in fondo a quel corridoio.
La luce era scarsa là dentro, il corridoio pareva più lungo di quello che si sarebbe pensato, lui scrutava quel muro pensando a cosa poteva trovare. Quell’ingresso poi girava ad angolo retto, e tutte le porte che si vedeva erano chiuse. Ad un tratto si accorse che era rimasto da solo, la vecchia sembrava sparita, forse si era infilata dietro una delle porte, pensò, e in un moto di razionalità tornò sui suoi passi, verso l’uscita. Ma con grande sorpresa, là dove si aspettava di trovare il portone, vide che non c’era più, e al posto dove avrebbe dovuto trovarsi adesso c’era il muro, come se la parete si fosse ricostituita alle sue spalle. Pensò che forse stava sbagliando, che forse aveva perso l’orientamento in quel corridoio, che quell’appartamento così grande e così stravagante poteva avergli giocato uno scherzo. Percorse avanti e indietro più di una volta tutto l’ingresso, scoprendolo sempre più contorto, più buio, più complicato ad ogni suo passo, fino a quando decise di aprire a caso una di quelle tante porte che c’erano.
La stanza in cui entrò era vuota, solo un letto disadorno vicino ad una parete, nient’altro. Osservò la finestra dai vetri opachi, si tolse il cappello, il soprabito, e appoggiò le sue cose sopra una sedia lì accanto. Si sentì improvvisamente stanchissimo e si sdraiò sopra quel materasso, assaporando il silenzio e la piacevole oscurità della stanza. Passò un po’ di tempo senza che niente accadesse, forse un’ora, forse anche due, poi, senza preavviso, arrivò l’infermiere della clinica insieme ad un’altra persona col camice bianco per fargli la solita iniezione calmante. “Eccomi”, disse il medico della clinica psichiatrica, mentre l’infermiere lo aiutava a tenere l’uomo fermo sul letto; “Con questa almeno stiamo buoni per quasi tutta la notte”.

Bruno Magnolfi

            

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