L’uomo camminava per strada insieme a tutti i
pensieri che gli giravano nella testa, ed i suoi passi cercavano di scansare i
piccoli accumuli d’acqua che si erano formati sui marciapiedi, dopo la pioggia
insistente di quel pomeriggio. In giro si vedevano poche persone, la maggior
parte dei negozi aveva già chiuso, le strade lucide portavano via le ultime
auto. L’uomo teneva le mani sprofondate dentro alle tasche, il cappello
antiquato calato sugli occhi, lo sguardo immobile, qualche metro davanti alle
scarpe. La sua depressione negli ultimi tempi pareva non aver progredito,
quella passeggiata che affrontava ogni giorno riusciva a fargli distendere i
nervi, a renderlo tranquillo per quasi tutta la notte.
In fondo alla strada, oltre l’angolo,
qualcuno aveva fatto un cenno con modi furtivi. L’uomo si era avvicinato
proseguendo comunque il suo itinerario, e una vecchia, mezza nascosta dentro un
portone, gli aveva chiesto qualcosa di incomprensibile. L’uomo immaginò che stesse
chiedendo dei soldi, così soffermandosi appena un momento tirò fuori dalla
tasca alcune monete, ma la vecchia con un gesto gli fece capire che non era
quello che le interessava. Lo invitò a seguirla dentro al portone, gli indicò
con un dito la scala di pietra che portava fino a quel primo piano, dove la
porta di un appartamento era socchiusa. L’uomo seguiva quei gesti conservando,
insieme ad una certa curiosità, la voglia profonda di tornarsene alla sua
passeggiata ed ai suoi pensieri, ma la vecchia pareva dovergli mostrare
qualcosa di importante, qualcosa che teneva lì, in quella casa, e che pareva in
fondo a quel corridoio.
La luce era scarsa là dentro, il corridoio
pareva più lungo di quello che si sarebbe pensato, lui scrutava quel muro
pensando a cosa poteva trovare. Quell’ingresso poi girava ad angolo retto, e
tutte le porte che si vedeva erano chiuse. Ad un tratto si accorse che era
rimasto da solo, la vecchia sembrava sparita, forse si era infilata dietro una
delle porte, pensò, e in un moto di razionalità tornò sui suoi passi, verso
l’uscita. Ma con grande sorpresa, là dove si aspettava di trovare il portone,
vide che non c’era più, e al posto dove avrebbe dovuto trovarsi adesso c’era il
muro, come se la parete si fosse ricostituita alle sue spalle. Pensò che forse
stava sbagliando, che forse aveva perso l’orientamento in quel corridoio, che
quell’appartamento così grande e così stravagante poteva avergli giocato uno
scherzo. Percorse avanti e indietro più di una volta tutto l’ingresso,
scoprendolo sempre più contorto, più buio, più complicato ad ogni suo passo,
fino a quando decise di aprire a caso una di quelle tante porte che c’erano.
La stanza in cui entrò era vuota, solo un
letto disadorno vicino ad una parete, nient’altro. Osservò la finestra dai
vetri opachi, si tolse il cappello, il soprabito, e appoggiò le sue cose sopra
una sedia lì accanto. Si sentì improvvisamente stanchissimo e si sdraiò sopra
quel materasso, assaporando il silenzio e la piacevole oscurità della stanza.
Passò un po’ di tempo senza che niente accadesse, forse un’ora, forse anche
due, poi, senza preavviso, arrivò l’infermiere della clinica insieme ad
un’altra persona col camice bianco per fargli la solita iniezione calmante.
“Eccomi”, disse il medico della clinica psichiatrica, mentre l’infermiere lo
aiutava a tenere l’uomo fermo sul letto; “Con questa almeno stiamo buoni per
quasi tutta la notte”.
Bruno Magnolfi
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