Il sole
poco sopra alle case spariva ogni tanto dietro a dei grandi nuvolosi tutti
bianchi e rigonfi. Un odore di terra era rimasto nell’aria, quasi a ricordare
ancora le grida e gli schiamazzi che quel pomeriggio si erano rincorsi tra quei
paletti raffiguranti le porte, retti alla meglio con dei piccoli cumuli di
sassi che ogni tanto venivano risistemati. Il campetto da calcio era il solito,
pieno di buche, ricavato al fianco di una fila di alberi mezzi secchi che
delimitavano un fosso, ma adesso pareva come abbandonato da tutti, come se quei
quattro fili d’erba sui lati e tutta quella polvere che al primo acquazzone
sarebbe diventata fanghiglia non fossero niente, solo una porzione di terra e
nient’altro.
Il pomeriggio era finito, tutti
i ragazzi se n’erano andati, soltanto loro due erano ancora lì, seduti su una
sasso, le ginocchia abbracciate, a guardare quel niente, ad aspettare il
tramonto e a parlare sottovoce di qualcosa che altrimenti avrebbero dovuto
ingoiare. Avevano perso quella partita a cui si erano preparati da giorni, uno
scontro tra due gruppi rivali, sei contro sei, tutti più o meno della medesima
età, anche se non era questo il motivo del loro sentirsi intristiti. Parlavano
delle famiglie adesso, e di quanto fosse sempre più difficile accettare quelle
cene con gli occhi nel piatto, quelle atmosfere pesanti, quei visi tirati,
quella mancanza di serenità che la crisi economica aveva costituito. Non ne
parlavano mai con nessuno, fare i finti e gli sbruffoni a scuola e con gli
altri era la norma, ma loro due potevano scambiarsi tutta la sincerità che
volevano, si conoscevano da sempre, abitavano in case vicine, i loro papà erano
in cassa integrazione ambedue.
Avevano già imparato a non
prendere a pedate una pietra per gioco, perché si sarebbero sciupate le scarpe,
e non erano andati a giocare quella partita portandosi dietro lattine e
bottiglie di coca e aranciata come gli altri, solo un po’ d’acqua di fonte. Ma
neanche questo era quanto li opprimeva di più. Erano le espressioni dei loro
genitori dentro casa l’elemento più forte, quella cappa pesante che regnava su
tutto, quel sentirsi in balia di qualcosa che non potevano in nessun modo
controllare, e che pregiudicava ogni giornata, ogni momento, ogni voglia di
ridere. Probabilmente se avessero vinto la partita quel pomeriggio loro due non
ne avrebbero neanche parlato con le rispettive famiglie, per pudore, perché non
in linea col resto; ne parlavano adesso, con tutta la sincerità che trovavano, e
i loro occhi svegli cercavano una forma che superasse quel momento che segnava
pesantemente quella loro adolescenza. Perché loro si sentivano già grandi, si
sentivano responsabili, immersi nel mondo più di tutti quegli altri che avevano
giocato la partita di calcio quel giorno, e un orgoglio fortissimo ne
trascinava la voglia di sentirsi migliori, forse anche perché più sfortunati.
Già quella solidarietà che
sentivano era importante, poi quel loro parlare generava le idee: avevano
deciso di sistemare quel campo di calcio durante i pomeriggi futuri, tenerlo il
più possibile a posto, togliere i sassi, coprire le buche, renderlo più
agevole. Avrebbero chiesto un contributo agli altri ad ogni partita, non c’era
niente di male, sarebbe stato il loro modo per sentirsi più utili e mettere in
tasca qualcosa. Ne parlavano, mettevano a punto i dettagli, era un inizio, ed
erano contenti per questo, anche se le loro parole restavano sempre appena
sussurrate, ad evitare di farsi sentire, tanto che il loro dialogo non è stato
possibile riportarlo in questo racconto: troppo esili quelle voci, troppo
lontano chi le avrebbe potute ascoltare.
Bruno
Magnolfi
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