giovedì 27 maggio 2010

La polvere sul campo di calcio.

            

            Il sole poco sopra alle case spariva ogni tanto dietro a dei grandi nuvolosi tutti bianchi e rigonfi. Un odore di terra era rimasto nell’aria, quasi a ricordare ancora le grida e gli schiamazzi che quel pomeriggio si erano rincorsi tra quei paletti raffiguranti le porte, retti alla meglio con dei piccoli cumuli di sassi che ogni tanto venivano risistemati. Il campetto da calcio era il solito, pieno di buche, ricavato al fianco di una fila di alberi mezzi secchi che delimitavano un fosso, ma adesso pareva come abbandonato da tutti, come se quei quattro fili d’erba sui lati e tutta quella polvere che al primo acquazzone sarebbe diventata fanghiglia non fossero niente, solo una porzione di terra e nient’altro.
Il pomeriggio era finito, tutti i ragazzi se n’erano andati, soltanto loro due erano ancora lì, seduti su una sasso, le ginocchia abbracciate, a guardare quel niente, ad aspettare il tramonto e a parlare sottovoce di qualcosa che altrimenti avrebbero dovuto ingoiare. Avevano perso quella partita a cui si erano preparati da giorni, uno scontro tra due gruppi rivali, sei contro sei, tutti più o meno della medesima età, anche se non era questo il motivo del loro sentirsi intristiti. Parlavano delle famiglie adesso, e di quanto fosse sempre più difficile accettare quelle cene con gli occhi nel piatto, quelle atmosfere pesanti, quei visi tirati, quella mancanza di serenità che la crisi economica aveva costituito. Non ne parlavano mai con nessuno, fare i finti e gli sbruffoni a scuola e con gli altri era la norma, ma loro due potevano scambiarsi tutta la sincerità che volevano, si conoscevano da sempre, abitavano in case vicine, i loro papà erano in cassa integrazione ambedue.
Avevano già imparato a non prendere a pedate una pietra per gioco, perché si sarebbero sciupate le scarpe, e non erano andati a giocare quella partita portandosi dietro lattine e bottiglie di coca e aranciata come gli altri, solo un po’ d’acqua di fonte. Ma neanche questo era quanto li opprimeva di più. Erano le espressioni dei loro genitori dentro casa l’elemento più forte, quella cappa pesante che regnava su tutto, quel sentirsi in balia di qualcosa che non potevano in nessun modo controllare, e che pregiudicava ogni giornata, ogni momento, ogni voglia di ridere. Probabilmente se avessero vinto la partita quel pomeriggio loro due non ne avrebbero neanche parlato con le rispettive famiglie, per pudore, perché non in linea col resto; ne parlavano adesso, con tutta la sincerità che trovavano, e i loro occhi svegli cercavano una forma che superasse quel momento che segnava pesantemente quella loro adolescenza. Perché loro si sentivano già grandi, si sentivano responsabili, immersi nel mondo più di tutti quegli altri che avevano giocato la partita di calcio quel giorno, e un orgoglio fortissimo ne trascinava la voglia di sentirsi migliori, forse anche perché più sfortunati.
Già quella solidarietà che sentivano era importante, poi quel loro parlare generava le idee: avevano deciso di sistemare quel campo di calcio durante i pomeriggi futuri, tenerlo il più possibile a posto, togliere i sassi, coprire le buche, renderlo più agevole. Avrebbero chiesto un contributo agli altri ad ogni partita, non c’era niente di male, sarebbe stato il loro modo per sentirsi più utili e mettere in tasca qualcosa. Ne parlavano, mettevano a punto i dettagli, era un inizio, ed erano contenti per questo, anche se le loro parole restavano sempre appena sussurrate, ad evitare di farsi sentire, tanto che il loro dialogo non è stato possibile riportarlo in questo racconto: troppo esili quelle voci, troppo lontano chi le avrebbe potute ascoltare.

            Bruno Magnolfi


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