Restavano
lì, senza parlare, lasciando trascorrere il tempo come fosse un elemento senza
importanza, seduti a quei tavolini di plastica all’aperto, riparati dal sole da
due o tre ombrelloni marcati dalla pubblicità dei gelati. Erano soltanto dei
vecchi, quasi inservibili, si sedevano al bar e guardavano chiunque passasse
lungo la strada, si facevano fare un caffè o versare un’aranciata e rimanevano
lì a lungo, ogni giorno per ore, con gli occhi piccoli e i modi lenti, quasi
impercettibili. Erano sempre in quattro o in cinque, e a volte parlavano tra
loro, ma a voce bassa, con delle bocche sdentate che pronunciavano una parola,
due al massimo, poi si chiudevano di nuovo, contornate da rughe che ormai
avevano deformato qualsiasi espressione.
Arrivò un
giovanotto, in quel pomeriggio lento, chiese se poteva fare qualche fotografia,
e loro dissero tutti di si, non ci vedevano niente di male, così il giovanotto
tirò fuori da una borsa macchine e cavalletti e iniziò a scattare da tutte le
posizioni, senza chiedere a nessuno di spostarsi o di guardare da una parte o
dall’altra. Andò avanti in questa maniera quasi un’ora, poi pagò qualcosa da
bere a tutti quanti, strinse la mano agli anziani e sorrise loro in modo cortese,
augurando buona giornata e ringraziando più volte della loro pazienza.
“Diventeremo
famosi”, disse uno di loro per scherzo quando tutto tornò nella totale
normalità. “Ormai siamo gli ultimi…”, aggiunse un altro che non toglieva mai il
suo cappello. “Gli ultimi a non preoccuparsi di niente”.
Bruno Magnolfi
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