Lo sapevo, lo avevo sempre saputo
quale fosse il margine di quella strada, la strada lunga e diritta che correva
nella nostra pianura a perdita d’occhio, fino al paese. Non ci voleva molto
tempo, se andavo a passo svelto bastava una mezz’oretta per raggiungere il
circolino e starmene lì, con tutti che ridevano, mi battevano una mano sopra la
spalla e certe volte mi pagavano un bicchiere di spuma. Seguivo quel piccolo
margine erboso, lo conoscevo ormai a menadito, sapevo quando si trovava ora un
sasso, ora un albero, ora la pietra miliare. Lungo la strada asfaltata non
passava quasi nessuno, e quando arrivava qualcuno che mi conosceva e che andava
nella mia direzione si fermava, rideva, diceva di saltare su insieme a lui e mi
dava un passaggio.
Durante
il giorno lavoravo quasi sempre dentro la stalla con mio padre che tutto il
giorno mungeva le mucche, mentre io con la forca sistemavo il fieno alle
bestie, toglievo il letame con la carriola, facevo tutto come lui mi diceva,
certe volte fino alla sera.
Lo sapevo
che quella strada non era illuminata per niente, ma io mi portavo la lampada,
per quando era sera, quando tornavo. Non mi trattenevo mai troppo a quel
circolino, però se non andavo fin lì a salutare quella gente che mi conosceva e
mi faceva sempre un sacco di feste non riuscivo a star bene. Gli altri
giocavano a carte, certe volte gridavano qualcosa, bevevano parecchi bicchieri
di vino, poi tornavano a ridere una volta che avevano smesso, e qualcuno diceva
che io portavo fortuna, e facevano a gara certe volte perché mi mettessi a
sedere a fianco dell’uno o dell’altro.
Ma a me non
piaceva stare a lungo là dentro a ridere e basta, avevo la mia strada da fare,
quel ciglio d’erba tra l’asfalto e il canale, che quando arrivava la bella
stagione si riempiva di rane che gracidavano e non la finivano più, fino a
quando non gli passavo vicino. A mio padre non piaceva che io andassi tutte le
sere fino a quel circolino, però non diceva mai niente, forse lo pensava, poi
basta.
Quando caddi
dentro al canale era una sera qualsiasi. Successe tutto senza che neppure me ne
accorgessi; scivolai, questo me lo ricordo, e mi ritrovai dentro al fango, quel
fango schifoso che mi intrappolò subito le scarpe ed i piedi. Era buio, l’acqua
marcia mi arrivava quasi alla gola, duravo fatica a far tutto, la mia lampada
era sparita ed il freddo mi aveva subito paralizzato.
Pensai di
lasciarmi andare, era inutile lottare contro il canale, però provavo vergogna
dopo tutti quegli anni in cui ero passato dal margine, da quel ciglio erboso
che conoscevo così bene, esser caduto là dentro mi pareva da stupidi. Non
volevo essere stupido, forse non ero proprio come gli altri del circolino, però
avevo un lavoro, frequentavo la gente, non ero anormale come qualcuno diceva.
Piansi, non
lo so neppure io per quale motivo, e forse chiusi gli occhi sognando di
trovarmi dentro alla stalla, con mio padre che mi diceva cosa c’era da fare,
oppure al circolino, con gli amici che mi pagavano la spuma da bere. Quando
arrivarono in quattro o cinque con le torce, non so quanto tempo fosse passato.
C’era mio padre davanti a tutti, e mi piacque tanto vederlo che si stava
preoccupando per me, ma non disse niente quando mi vide, entrò nell’acqua
putrida anche lui e mi tirò fuori con forza ma anche con garbo, senza commenti,
come se lo avesse saputo da sempre che prima o poi quella cosa sarebbe dovuta
succedere.
Bruno
Magnolfi
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