venerdì 13 agosto 2010

Leone per tutti.

            

            Che fortuna aver trovato queste due stanze in affitto, pensava il vecchio Leo: la pigione era meno della metà della sua pensione, adatta per poter tirare avanti alla meglio, e il posto era quanto di meglio potesse aver mai desiderato. Era Leone il suo vero nome, ma quasi nessuno lo aveva chiamato così in tutta la sua vita: troppo importante per me un nome così, diceva negli uffici pubblici dove qualche volta era dovuto andare; per uno come sono io sarebbe bastato un nome più umile, più generico, ecco.
Ma quelle due stanze erano la sua salvezza. Il quartiere era miserabile, e quel gruppo di casette una in fila all’altra erano nate dall’ingegno di qualche muratore che chissà quant’anni prima le aveva tirate su senza chiedere niente a nessuno, alcun permesso, e così erano rimaste, quasi dei rifugi ad un solo piano per diseredati.
C’era anche il retro, oltre quelle due stanzette, con un fazzoletto di terra da sistemare ad orto, se uno ne aveva voglia, da attrezzare in modo esattamente identico a tutti gli altri orti che si aprivano dietro a quelle case tutte uguali, per quel gruppo di anziani che adesso erano i suoi vicini, e che si ritrovavano seduti al sole di quei pomeriggi, con una sedia o su una panca, a parlare di qualcosa, o a restare anche in silenzio, ma in compagnia, tra loro.
Leo si era adattato subito in quella nuova sistemazione, ma lì in quegli orti insistevano a volerlo chiamare Leone, tanto da farlo sentire a disagio qualche volta, anche se alla fine capiva anche lui che il rispetto dietro a quella scelta era superiore a qualsiasi altro sentimento. Così lasciava fare, anzi, gli pareva che tutti fossero contenti da quando si era aggiunto a quella piccola combriccola, tanto da sentirsi quasi felice anche lui.
Gli bussavano dalle finestre che davano sugli orti, strizzavano gli occhi piccoli in un sorriso tra le rughe, e gli dicevano con semplicità che se non c’era il loro Leone la giornata era ben misera, senza interesse. Leo usciva con loro, si sedeva al sole, e raccontava le sue cose, i bei tempi, le esperienze di tanti anni prima.
Quando arrivarono i funzionari comunali a dire loro che quelle case dovevano essere abbattute, nessuno in un primo momento ci credette. Tutti rimasero in silenzio ad ascoltare quei discorsi forbiti dove non si diceva niente della loro vita, di quelle poche cose per cui vivevano, della loro solidarietà, quella tra poveri vecchi, che si danno una mano, e che sanno anche ascoltarsi.
Fu solo Leone a un tratto che si schiarì la voce, prese con sé tutto il coraggio di cui aveva bisogno e disse in fretta che sicuramente quei funzionari avevano dalla loro ogni ragione, e non c’era proprio niente da discutere; ma proprio per questo semplice motivo loro, che erano soltanto poveri vecchi senza cultura, e che adesso abitavano lì perché non avrebbero saputo dove altro andare, facevano domanda per essere seppelliti sotto alle macerie della propria casa, come se fosse la guerra a radere al suolo quelle mura, e non il progresso. Sarò il primo a farmi seppellire, disse: mi chiamavano Leo, quasi tutti, continuò con orgoglio, ma il mio vero nome è quello di Leone.


Bruno Magnolfi   

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