I caseggiati attorno al grande
cortile erano quasi tutti uguali, composti da tre o quattro piani e con delle
terrazzine perennemente ingombre di panni stesi ad asciugare. Nei pomeriggi
c’erano sempre i bambini a giocare in quel cortile, ma al mattino appariva
sempre irrealmente silenzioso, con quei quattro o cinque alberi polverosi con
le radici affondate dentro a un’aiuola di terra in mezzo alla ghiaia, ai sassi,
al cemento e a qualche panca di legno.
Lo vidi lì
la prima volta: fermo, appoggiato ad un muro, i capelli neri, la sigaretta in
mezzo alle dita. Doveva essere uno dei nuovi inquilini degli appartamenti più
piccoli, pensai, quelli all’angolo, ma uno così tra quelle case non si era mai
visto. Anche una povera donna come me doveva pur dare un’occhiata ad un bel
ragazzo, e così feci, mentre continuavo a stendere i panni sui fili lungo il
terrazzo.
Poi mi cadde
una federa, ma non lo feci apposta, fu per una distrazione casomai. Scesi alla
svelta, corsi di sotto, aprii la porticina in fondo al corridoio buio alla fine
delle scale, lui era ancora lì, nella medesima posizione. Si volse, al rumore
che provocai, lui assieme alla sua sigaretta. Mi osservò senza interesse,
forse, e io con titubanza avanzai verso la federa, disposta a giustificarmi
mille volte per ciò che ero costretta a compiere.
Così da
vicino mi parve ancora più bello di come lo avevo visto dal mio terrazzo: lui
continuava ad osservarmi, sorrise leggermente con un angolo della bocca, io mi
inchinai per riprendere la mia biancheria ad una distanza di non più di cinque
o sei metri. Rallentai ogni movimento, lasciai che lui osservasse per intero
ciò che stavo facendo, come in un piano cinematografico dove ogni dettaglio era
studiato, messo a punto, esatto: presi la federa con una mano, mi sollevai e
restai ferma, in piedi, lì davanti a lui, gli occhi negli occhi, poi dissi:
buongiorno, sottovoce, senza alcuna convinzione, come per cercare qualcosa che
mi desse respiro, che dimostrasse che ero viva, non una proiezione dei pensieri
di quando ero ancora sopra al terrazzo.
Lui non
cercò neppure di dire qualcosa, continuava semplicemente ad osservarmi con quel
suo sorriso ammiccante, ed io pensai di svenire e cadere per terra pur di
vederlo muovere da quella posizione statuaria. Nello stesso attimo pensavo di
chiedergli qualcosa, ma mi trattenevo nel terrore di rompere quel fragilissimo
incantesimo che si era creato.
Poi abbassai
gli occhi, vidi il grembiule a quadretti che avevo ancora addosso e con il
quale in genere accudivo alle mie faccende di casa, guardai la federa che avrei
ancora dovuto lavare, e mi venne da ridere, senza alcuna possibilità di
trattenermi. Gli ridevo in faccia, mentre ancora mi guardava, a lui e a tutto
il suo essere bello in un posto dove per forza risaltava, anche se non ci stava
a far niente, dove in fondo appariva soltanto stonato; continuai a ridere di me
e anche di lui mentre mi voltavo per proseguire con le mie cose, e me ne andavo
chiudendo alle spalle la porticina in fondo alle scale, tanto la soddisfazione
me l’ero già levata, e tornavo alle mie occupazioni senza neppure voltarmi di
nuovo.
Bruno
Magnolfi
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