La
malattia, strisciante e antipatica, mi aveva recluso da solo nella mia casa per
quasi due mesi, e adesso che avevo iniziato quel lungo periodo di
convalescenza, così come avevano diagnosticato i dottori, e avrei potuto iniziare gradualmente ad
uscire, a girare in mezzo alla gente, ad andare in qualche negozio o ad
assistere a qualche spettacolo, in realtà preferivo restarmene in casa, proprio
per scelta, a pensare, a rileggere quei vecchi libri che avevo, e a non preoccuparmi
di niente. A dire tutta la verità il contatto con la gente mi procurava
un’uggia pazzesca. Già il solo dover condividere lo stesso spazio minuto di un
autobus, un ascensore, un locale qualsiasi, zeppo di persone sudate, con il
fiato pesante, i capelli in disordine, la faccia sgradevole anche solo alla
vista, mi faceva rivoltare lo stomaco, mi procurava una nausea che
difficilmente avrei mai superato. In casa c’era il silenzio, la calma, e i miei
pensieri fluivano lentamente lungo il soffitto della mia camera, proprio sopra
al mio letto, ed il tempo scorreva in maniera diversa, a seconda l’ora del
giorno, o del mio umore, o di altre cose meno spiegabili, risultando contratto,
in certe occasioni, o disteso, in momenti diversi. Ripercorrevo certe volte
dentro di me, come un ricordo piacevole, una sequenza monotona di immagini che
vedevano da angolazioni variate, certe volte anche insolite, il mio corpo
immobile posizionato in modo diverso dentro alla casa. Le bianche pareti delle
stanze, disadorne da sempre di quadri o di altri oggetti da appendere,
funzionavano in maniera apprezzabile, con la loro ruvida grana, a costituire lo
sfondo contro il quale immaginavo le mie posizioni. Quelle immagini non avevano
assolutamente colore, ma le sfumature inesauribili tra il bianco ed il nero
erano tali che ogni dettaglio risultava presente, con la sua tonalità definita,
con i contorni netti e evidenti, con il contrasto tra lo spigolo e il piano in
grande evidenza, e dentro ai riquadri con cui componevo i ritratti, gli
scarsissimi oggetti che vi restavano inseriti all’interno, parlavano un proprio
linguaggio, evidenziavano qualcosa di sé, o del loro manifestarsi come materia.
Il mio corpo aveva sempre posizioni il più naturale possibile: seduto, in piedi
appoggiato ad un muro, supino; e tutti i miei muscoli, come anche i miei nervi,
e l’espressione del viso, durante quelle lunghe ore di posa, risultavano
sottoposte a dura prova nel conservare la plasticità che serviva,
l’estemporaneità della situazione pensata, la naturalezza di ogni dettaglio.
Certe volte arrivavo alla sera completamente spossato, ed allora riaprivo i
miei libri migliori, ed andavo alle pagine note, contrassegnate con dei segnali
diversi a seconda l’importanza che avevo dato a suo tempo alle parole
evidenziate da righe sottili impresse a matita, e tramite quelle ripercorrevo
le frasi che, quando avevo letto tutti interi quei libri, mi erano apparse
identificative in modo maggiore di altre, o curiose, o importanti per qualche
motivo legato ai miei modi di essere, di leggere, di pensare le cose. Quando la
malattia riprese il suo corso, lo fece senza dare avvisaglie, ma io seppi da
subito che stavolta non avrei avuto bisogno di quei dottori noiosi, così
continuai semplicemente a dar corso ai miei giorni con le stesse cose precise,
percorrendo la mia casa e i miei libri come infiniti sentieri, che mi
lasciavano scrutare ogni dettaglio e ogni elemento costitutivo dei paesaggi che
si aprivano ogni giorno intorno ai miei occhi, come il raggiungere una estrema
pace interiore, dove la malattia era solo un’estranea, e la mia fantasia
bastava a se stessa.
Bruno
Magnolfi
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