martedì 14 luglio 2009

Fantasia malata.



            La malattia, strisciante e antipatica, mi aveva recluso da solo nella mia casa per quasi due mesi, e adesso che avevo iniziato quel lungo periodo di convalescenza, così come avevano diagnosticato i dottori,  e avrei potuto iniziare gradualmente ad uscire, a girare in mezzo alla gente, ad andare in qualche negozio o ad assistere a qualche spettacolo, in realtà preferivo restarmene in casa, proprio per scelta, a pensare, a rileggere quei vecchi libri che avevo, e a non preoccuparmi di niente. A dire tutta la verità il contatto con la gente mi procurava un’uggia pazzesca. Già il solo dover condividere lo stesso spazio minuto di un autobus, un ascensore, un locale qualsiasi, zeppo di persone sudate, con il fiato pesante, i capelli in disordine, la faccia sgradevole anche solo alla vista, mi faceva rivoltare lo stomaco, mi procurava una nausea che difficilmente avrei mai superato. In casa c’era il silenzio, la calma, e i miei pensieri fluivano lentamente lungo il soffitto della mia camera, proprio sopra al mio letto, ed il tempo scorreva in maniera diversa, a seconda l’ora del giorno, o del mio umore, o di altre cose meno spiegabili, risultando contratto, in certe occasioni, o disteso, in momenti diversi. Ripercorrevo certe volte dentro di me, come un ricordo piacevole, una sequenza monotona di immagini che vedevano da angolazioni variate, certe volte anche insolite, il mio corpo immobile posizionato in modo diverso dentro alla casa. Le bianche pareti delle stanze, disadorne da sempre di quadri o di altri oggetti da appendere, funzionavano in maniera apprezzabile, con la loro ruvida grana, a costituire lo sfondo contro il quale immaginavo le mie posizioni. Quelle immagini non avevano assolutamente colore, ma le sfumature inesauribili tra il bianco ed il nero erano tali che ogni dettaglio risultava presente, con la sua tonalità definita, con i contorni netti e evidenti, con il contrasto tra lo spigolo e il piano in grande evidenza, e dentro ai riquadri con cui componevo i ritratti, gli scarsissimi oggetti che vi restavano inseriti all’interno, parlavano un proprio linguaggio, evidenziavano qualcosa di sé, o del loro manifestarsi come materia. Il mio corpo aveva sempre posizioni il più naturale possibile: seduto, in piedi appoggiato ad un muro, supino; e tutti i miei muscoli, come anche i miei nervi, e l’espressione del viso, durante quelle lunghe ore di posa, risultavano sottoposte a dura prova nel conservare la plasticità che serviva, l’estemporaneità della situazione pensata, la naturalezza di ogni dettaglio. Certe volte arrivavo alla sera completamente spossato, ed allora riaprivo i miei libri migliori, ed andavo alle pagine note, contrassegnate con dei segnali diversi a seconda l’importanza che avevo dato a suo tempo alle parole evidenziate da righe sottili impresse a matita, e tramite quelle ripercorrevo le frasi che, quando avevo letto tutti interi quei libri, mi erano apparse identificative in modo maggiore di altre, o curiose, o importanti per qualche motivo legato ai miei modi di essere, di leggere, di pensare le cose. Quando la malattia riprese il suo corso, lo fece senza dare avvisaglie, ma io seppi da subito che stavolta non avrei avuto bisogno di quei dottori noiosi, così continuai semplicemente a dar corso ai miei giorni con le stesse cose precise, percorrendo la mia casa e i miei libri come infiniti sentieri, che mi lasciavano scrutare ogni dettaglio e ogni elemento costitutivo dei paesaggi che si aprivano ogni giorno intorno ai miei occhi, come il raggiungere una estrema pace interiore, dove la malattia era solo un’estranea, e la mia fantasia bastava a se stessa.

            Bruno Magnolfi


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