L’Alto
Dirigente della multinazionale era andato presto in ufficio, molto prima che
gli impiegati entrassero anche loro nel palazzo dai vetri oscurati che oramai
da tantissimi anni era la sede della struttura. Gli piaceva arrivare presto a
lavoro, almeno nei giorni in cui non era in qualche altro luogo del mondo a
sbrigare gli affari necessari all’azienda. Gli piaceva parcheggiare la macchina
nel garage riservato, entrare con calma nell’ingresso deserto al piano terreno,
salutare il portiere di turno, lasciarsi chiamare da lui, con un gesto di
goduta cortesia, l’unico ascensore tra i tre disponibili che arrivava fino
all’ultimo piano, quello dei soli dirigenti e delle loro rispettive segretarie.
Ma quel giorno qualcosa di particolare era dentro di lui: si volse verso il
portiere, lo guardò dentro agli occhi, come a cercare di ricordarsi il suo
volto, poi sparì tra le porte scorrevoli. Una mail gli aveva diagnosticato il
tumore che lui sospettava da tempo, opportunamente nello stesso momento in cui
la sua azienda era sull’orlo del baratro: un deficit colossale, chiusi i
finanziamenti bancari, chiusi gli aiuti di stato, futuro azzerato. Con sua
moglie non aveva parlato di niente, in fondo erano tutti argomenti per lo più
disdicevoli, era meglio usare la giusta distanza; così aveva pensato di
gettarsi semplicemente di sotto dall’ultimo piano del suo bel palazzo dai vetri
oscurati, senza lasciare neppure un biglietto di scuse, ma nella nottata,
trascorsa a pensare, aveva scartato la soluzione: troppo plateale e poi
stomachevole. Aveva anche respinto
l’idea di usare quella vecchia pistola che teneva in qualche cassetto dentro al
suo ufficio, la sua segretaria non avrebbe gradito trovarlo in un lago di
sangue. Restava la fuga, anzi, la cosa migliore sarebbe stata quella di
razziare dei soldi, quanti di più e dove era possibile, e sparire per sempre in
un esilio dorato di qualche paradiso dei tropici a godersi gli ultimi anni di
vita. Perciò in quel mattino era necessario arrivare a decidere. Seduto alla
sua scrivania, aspettando qualcosa di cui non immaginava neppure i contorni,
con il cielo appena fuori dai vetri, l’Alto Dirigente si sentiva tremare.
Un’ora, due al massimo, e le cose avrebbero preso una piega che sarebbe poi
stato impossibile distendere. Arrivò, con una certa saggezza, la sua
segretaria, che sapeva del suo vizio di entrare per primo in ufficio, ma lui la
affrontò, chiedendole subito di visionare certi rapporti e alcuni documenti
ancora prima che lei avesse tolto il soprabito. Poi, nervosamente, l’Alto
Dirigente passeggiò più di una volta nei corridoi di quell’ultimo piano dai
pavimenti di specchio, osservò quel suo ufficio di pelle e di acciaio, riguardò
la sua scrivania con sopra gli oggetti della sua vita, si soffermò davanti alla
sua segretaria che nell’ufficio di fianco stava già lavorando per lui, e infine
premette il pulsante dell’ascensore pneumatico che in un soffio gli aprì le sue
porte. Nell’ingresso il portiere era ancora al suo posto. L’Alto Dirigente
della multinazionale, scartando qualsiasi altro percorso, si mosse verso di
lui, con decisione, si fermò di fronte al suo banco, lo guardò in fondo agli
occhi, gli strinse la mano superando quello stupore che immaginava nell’altro,
e poi andò via.
Bruno Magnolfi
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