“Buongiorno
signor Ernesto”, gli aveva detto anche quel mattino la sua vicina di casa, una
donna anziana molto cortese, residente in un terra tetto con piccolo giardino,
quasi uguale a quello dove abitava lui, lasciatogli dai suoi genitori, che non
mancava mai di salutarlo regalandogli un grande sorriso, in qualsiasi
occasione. Era stata lei, Ernesto non poteva certo dimenticarlo, la sua prima
compratrice dei suoi quadri. “Sono bellissimi”, gli aveva detto tanti anni
prima, quando ancora era in vita suo marito direttore di banca, e lui si era
sentito lusingato da quelle parole incoraggianti. Naturalmente da quella volta
Ernesto aveva continuato a dipingere, aveva partecipato a delle mostre, aveva
vinto anche qualche premio, ma non c’era stato per lui quel salto di qualità
che aveva sognato. Adesso erano ormai trascorsi quasi trent’anni, e tanto di
quell’entusiasmo che aveva allora, ormai se n’era andato. Aveva invece
continuato a fare l’insegnante d’arte alle scuole medie, a parlare con i
ragazzi di tutte le grandi scuole artistiche della civiltà, e dei periodi
storici, delle grandi figure della pittura, e a riempirsi la casa di tele che
continuava a studiare nei minimi dettagli, e a dipingere con calma, dopo la
scuola, elaborando tutto il suo sapere sopra a quelle superfici, che
immancabilmente finivano per andarsi a coprire di polvere da qualche parte in
casa sua. Qualche mese addietro la sua vicina gli aveva detto sottovoce:
“...peccato, signor Ernesto…”, e lui era rimasto colpito da quelle semplici
parole, ma non subito. “…nelle sue tele si vedeva il tocco dell’artista…”,
aveva detto quella donna, che ancora andava con le amiche in giro per le
mostre. Non le aveva dato peso, non aveva pensato troppo a quei significati,
Ernesto, ma da quel momento gli si era instillata dentro una malinconia che mai
aveva provato prima: gli dava noia quel pensiero, adesso, avrebbe voluto
cancellarlo, dire ad alta voce che non era vero, lui non era un fallito, aveva
dipinto qualche quadro, senza impegno, quasi per passare il tempo. Ma dentro di
sé sapeva che non era vero, e quello strano struggimento che provava, si
riaccendeva come per una dannazione ogni volta che vedeva la vicina: gli
ricordava la sua incapacità ad essersi gettato a capofitto in ciò che più di
qualsiasi altra cosa lo aveva mai interessato nella vita. Certe volte,
specialmente quando si trovava da solo, gli sembrava terribile pensare di aver
avuto delle possibilità di esistenza diverse da quel grigiore quotidiano, da
tutta quella monotonia che lo aveva portato ormai quasi alla pensione, senza
essersi infilato, come sarebbe stato probabilmente abbastanza naturale, in
quella materia che almeno in quegli anni padroneggiava così bene. Così aveva
iniziato ad odiare quella vecchia, ad evitarla tutte le volte che poteva, anche
se abitava nella casa proprio a fianco della sua. Non sapeva proprio come
uscirne, persino la strada dove viveva, e dove si trovavano tutte quelle
villettine quasi uguali, con le facciate dai colori pallidi, pastello, le
risultavano tutte odiose, come abitate da tante vecchie identiche, pronte in
ogni ora del giorno a rinfacciargli, con il loro sorriso cortese, con quelle
maniere educate e borghesi, che lui non ce l’aveva fatta, non era riuscito ad
uscire da lì, ad essere artista, affrontando il mondo con un’altra faccia. Le
sere specialmente, lo facevano sentire provato, e fu durante una di quelle, nel
periodo estivo, quando tutto il vicinato si metteva nei propri giardinetti
davanti casa a prendere il fresco, che lui tirò fuori tutte le sue tele ed
iniziò a stenderle lì, sul marciapiede, per mostrarle a tutti. Uscirono da
casa, curiosi, vennero vicino ma non tanto, ad ammirare le sue tele, qualcuno
gli strinse la mano, come per suggellare la dipartita del suo cervello dalla
normalità che imperava in quella strada, ma fu la vecchia, la sua vicina, che
da sola andò vicino a lui, e con le lacrime agli occhi, chissà per cosa, gli
disse solamente: “…bravo; bravo; l’artista, quando c’è, deve uscire, prima o
poi…”.
Bruno Magnolfi
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