lunedì 20 luglio 2009

Di fronte alla strada.



            Quasi ogni giorno, da quasi due mesi, tornando a casa dopo il lavoro trovavo quella donna dall’età indefinita tra i trenta e i quaranta, affacciata ad una finestra del suo appartamento, ad osservare la strada ed il traffico. Era l’inquilina del primo piano di un palazzo di faccia a quello dove si trovava il mio appartamento, la conoscevo solo perché la vedevo dentro a quella finestra, e pur non sapendo niente di lei, non l’avevo neanche mai incontrata per strada, mi ero in fretta così abituato a quella sua costante presenza a quell’ora, verso le sei del pomeriggio, quando abitualmente rientravo, che quando certe volte non c’era, e la sua finestra era deserta, un po’ mi mancava, e la giornata mi sembrava diversa dal solito. Quella donna non guardava mai verso di me, non volgeva lo sguardo dalla mia parte mentre scendevo dall’auto, e poi, quando io, con modi meccanici, prendevo dal portabagagli la mia borsa coi documenti d’ufficio, ed estraevo di tasca la chiave di casa per inserirla nel portone di legno, lei continuava a star là, la vedevo con la coda dell’occhio, intenta ad osservare un po’ tutto e un po’ niente, il via vai della strada e tutto il gran gruppo dei vicini di casa che andavano e venivano per le loro faccende, quasi indifferente a quel traffico che però era la sola variabile nel suo campo visivo. Agli inizi mi aveva dato fastidio, pensavo al suo registro mentale che elencava gli orari di tutti, le loro abitudini, i comportamenti usuali e quelli al di fuori delle solite cose, e a quel suo formarsi poco per volta un’idea precisa e completa di ogni persona che abitava in quel nostro quartiere; ma in seguito mi ero così abituato a quella presenza, che al contrario ero contento se rientrando trovavo quella donna al suo posto, con gli avambracci appoggiati sul davanzale, le spalle e la faccia incorniciate dalla finestra, in mezzo a due piccoli vasi di fiori. A mia moglie le avevo chiesto un volta all’inizio qualcosa di lei, ma mia moglie non l’aveva neanche notata, così parlai d’altro cercando di dare a quell’argomento il valore di niente. Al mattino, quando uscivo di casa, quella finestra era chiusa, però in qualche modo restava il suo sapore in mezzo a quei vasi di fiori, e alle volte mi pareva augurasse una buona giornata, come se una scia di quel suo essere lì in qualche ora del giorno, avesse un messaggio per tutti, spandendo ottimismo, positività, un auspicio di buona giornata. Una sera, rientrando più tardi del solito, quando tutti erano a cena e la strada appariva deserta, mi ero spinto fino a guardare la fila di nomi sui campanelli. Si chiamava Bianchini, avevo scoperto, ma era il suo nome quello che mi sarebbe piaciuto sapere, e sul campanello non c’era. Poi, una sera che avevo festeggiato assieme agli altri in ufficio il pensionamento di un nostro collega, e avevo bevuto qualcosa di alcolico, arrivai a parcheggiare la macchina con un’euforia che raramente avevo provato. Spensi il motore, aprii lo sportello, poi guardai nella direzione di quella finestra. Lei era là, come sempre, e vidi che le era caduto qualcosa dal davanzale, e adesso volteggiava nell’aria, senza che lei si fosse accorta di niente. In un attimo fui sotto a quella finestra, attratto da quella occasione fortuita, raccolsi quel foglio di carta da terra e volsi la faccia verso di lei. Dissi qualcosa, e lei si mosse, rispose, ma senza guardarmi, o almeno non in modo diretto. Mi disse con voce flautata: “…signore, per favore, può portarmi quel foglio fino al portone del mio appartamento, le vengo ad aprire…”. Così io entrai dentro al palazzo, corsi su per quella rampa di scale, arrivai sul pianerottolo, e lei aprì la porta di casa. Non avevo guardato quel foglio, ma mentre salivo ne avevo sentito dentro alle dita una grana formata da piccoli buchi, che ancora non mi avevano aiutato ad arrivare a capire; poi lei fu su l’uscio, e mi guardò a modo suo, senza vedermi, ed io iniziai a percorrere in un lampo tutto il suo tempo passato a quella finestra a interpretare i rumori, a comprendere quel mondo di fuori difficile, estraneo, pieno zeppo di insidie, e restai immobile, senza trovare parole. Avrei avuto voglia di stringerla, di dirle che il mondo era bello solo perché c’era lei, che mi sarebbe piaciuto descriverle con le parole più adatte tutto quello che lei non poteva vedere, che per me non era importante quel suo problema, che era bellissima, che avrei voluto tanto aiutarla, dedicare a lei tutto il mio tempo, tutta la vita, ma riuscii a consegnarle soltanto il suo foglio e poi tornai a casa.

            Bruno Magnolfi


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