domenica 19 luglio 2009

Nato su Marte.



            A quella festa di compleanno era andato solo perché Marco aveva insistito parecchio, come se mancare per me quella sera avesse significato perdere una grande opportunità nella vita. Conoscevo Marco fin da quando eravamo bambini, e ricordavo picchealtro i suoi atteggiamenti di allora che non avevo mai digerito, pur sentendolo amico, per esempio quando aveva sostenuto che era nato su Marte, o che conosceva la possibilità di trasformare in metallo prezioso qualsiasi cosa volesse. Certo, avevamo forse dieci anni, e nessuno tra quanti eravamo aveva mai creduto a quelle e altre idiozie che riusciva a inventarsi, però i suoi modi di raccontare le cose erano unici, particolari, spesso tirando fuori parole che noi altri non avevano neanche mai sentito prima di allora, e lui con grande scioltezza riusciva a buttarcele lì, come cose qualsiasi, lasciandoci esterrefatti e stupiti, a chiederci dove avesse trovato tutta quella cultura e quelle notizie che parevano venirgli da dentro, senza bisogno di pensare neanche, solo così, per parlare, forse soltanto per spostare un pochino il nostro punto di vista indolente. Con Marco mi ero sempre sentito a disagio, come stare assieme a qualcuno che senza preavviso ti pone domande importanti, su argomenti che non hai mai neanche affrontato, o ti dice cose delle quali non riesci ad avere una qualsiasi opinione, però sa anche aiutarti nei compiti a scuola, e a volte ti regala un oggetto, qualcosa che è suo, che all’improvviso gli diventa superfluo, e tu non ti sentiresti così a posto con lui da poterlo accettare, però non puoi rifiutare qualcosa che ti viene donato in quella maniera, senza alcun sacrificio. A periodi saltuari Marco era sempre tornato a farsi sentire, a chiedere cosa fosse successo mentre lui era all’estero, o impegnato in qualcuna delle sue attività da pazzoide, perso dietro a un’idea o a un progetto di vita; però io alzavo il telefono, e lui all’improvviso era lì, come ci fossimo visti poche ore prima, con quella maniera entusiasta di dire le cose, con le sue frasi leggere con cui mi faceva capire insuccessi o traguardi raggiunti, senza mai dare né agli uni, ma neppure a quegli altri, un valore eccessivo. Poi all’improvviso mi aveva chiamato per quel suo compleanno, di cui io non avevo memoria di averne festeggiato un altro con lui. Mi aveva indicato un locale e un orario, dove mi immaginavo si sarebbero riunite parecchie persone, dove tutto sembrava all’insegna di una festa grandiosa, come ci si sarebbe aspettato da lui. Invece, quando arrivai, mi resi conto che eravamo solo noi due: aveva prenotato un tavolo, Marco, in quel ristorante, e mi aveva fatto sedere di fronte, per guardarmi negli occhi. Mi ero sentito ridicolo con il mio pacchettino regalo e il mio abbigliamento da sera, ma a lui non importava per niente, voleva solo guardarmi, parlare di sé e farmi domande, come sempre aveva fatto, niente di nuovo. Quando uscimmo di lì, pronti per salutarci, disse che sarebbe partito nei giorni seguenti, non ci saremmo più visti, che aveva un tumore, e se lo andava a curare in America, e dovevo salutargli tutti coloro che lo conoscevano. Io ero senza parole, all’improvviso tutta la vita, tutti i nostri discorsi, i tentativi per essere amici erano lì, dentro al pacco regalo che tenevo ancora tra le mie mani, e tutto finiva, prima ancora che si fosse deciso qualcosa. Ma non potevo far niente, era un addio il suo saluto, non c’erano possibilità differenti. Tornava su Marte, il mio Marco, dove era nato davvero, adesso ne ero più che sicuro, e dove probabilmente aveva sempre vissuto.

            Bruno Magnolfi  


            

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