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quella festa di compleanno era andato solo perché Marco aveva insistito
parecchio, come se mancare per me quella sera avesse significato perdere una
grande opportunità nella vita. Conoscevo Marco fin da quando eravamo bambini, e
ricordavo picchealtro i suoi atteggiamenti di allora che non avevo mai
digerito, pur sentendolo amico, per esempio quando aveva sostenuto che era nato
su Marte, o che conosceva la possibilità di trasformare in metallo prezioso
qualsiasi cosa volesse. Certo, avevamo forse dieci anni, e nessuno tra quanti
eravamo aveva mai creduto a quelle e altre idiozie che riusciva a inventarsi,
però i suoi modi di raccontare le cose erano unici, particolari, spesso tirando
fuori parole che noi altri non avevano neanche mai sentito prima di allora, e
lui con grande scioltezza riusciva a buttarcele lì, come cose qualsiasi,
lasciandoci esterrefatti e stupiti, a chiederci dove avesse trovato tutta
quella cultura e quelle notizie che parevano venirgli da dentro, senza bisogno
di pensare neanche, solo così, per parlare, forse soltanto per spostare un
pochino il nostro punto di vista indolente. Con Marco mi ero sempre sentito a
disagio, come stare assieme a qualcuno che senza preavviso ti pone domande
importanti, su argomenti che non hai mai neanche affrontato, o ti dice cose
delle quali non riesci ad avere una qualsiasi opinione, però sa anche aiutarti
nei compiti a scuola, e a volte ti regala un oggetto, qualcosa che è suo, che
all’improvviso gli diventa superfluo, e tu non ti sentiresti così a posto con
lui da poterlo accettare, però non puoi rifiutare qualcosa che ti viene donato
in quella maniera, senza alcun sacrificio. A periodi saltuari Marco era sempre
tornato a farsi sentire, a chiedere cosa fosse successo mentre lui era
all’estero, o impegnato in qualcuna delle sue attività da pazzoide, perso
dietro a un’idea o a un progetto di vita; però io alzavo il telefono, e lui
all’improvviso era lì, come ci fossimo visti poche ore prima, con quella
maniera entusiasta di dire le cose, con le sue frasi leggere con cui mi faceva
capire insuccessi o traguardi raggiunti, senza mai dare né agli uni, ma neppure
a quegli altri, un valore eccessivo. Poi all’improvviso mi aveva chiamato per
quel suo compleanno, di cui io non avevo memoria di averne festeggiato un altro
con lui. Mi aveva indicato un locale e un orario, dove mi immaginavo si
sarebbero riunite parecchie persone, dove tutto sembrava all’insegna di una
festa grandiosa, come ci si sarebbe aspettato da lui. Invece, quando arrivai,
mi resi conto che eravamo solo noi due: aveva prenotato un tavolo, Marco, in
quel ristorante, e mi aveva fatto sedere di fronte, per guardarmi negli occhi.
Mi ero sentito ridicolo con il mio pacchettino regalo e il mio abbigliamento da
sera, ma a lui non importava per niente, voleva solo guardarmi, parlare di sé e
farmi domande, come sempre aveva fatto, niente di nuovo. Quando uscimmo di lì,
pronti per salutarci, disse che sarebbe partito nei giorni seguenti, non ci
saremmo più visti, che aveva un tumore, e se lo andava a curare in America, e
dovevo salutargli tutti coloro che lo conoscevano. Io ero senza parole,
all’improvviso tutta la vita, tutti i nostri discorsi, i tentativi per essere
amici erano lì, dentro al pacco regalo che tenevo ancora tra le mie mani, e
tutto finiva, prima ancora che si fosse deciso qualcosa. Ma non potevo far
niente, era un addio il suo saluto, non c’erano possibilità differenti. Tornava
su Marte, il mio Marco, dove era nato davvero, adesso ne ero più che sicuro, e
dove probabilmente aveva sempre vissuto.
Bruno
Magnolfi
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